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Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli
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Milano Centrale
a cura di Antonino Valvo
Come è stato il tuo incontro con la Stazione Centrale?
Ho cominciato a frequentare la zona grazie a degli amici che si incontravano lì. Ciò che mi attraeva di più era la volontà di trovarsi all'esterno per fare comunità: una sorta di polis, dove lo spazio pubblico diventa luogo deputato all'incontro, una socialità esibita senza che nessuno si preoccupasse di ciò che poteva pensare la gente.
Che obiettivo volevi raggiungere con il film?
Dei neri, dell'immigrazione, delle condizioni in cui vivono se ne è parlato molto ma sempre in maniera banale, con le storie più eclatanti e il degrado che le circonda. Io volevo concentrarmi sulle persone, su quello che pensavano e desideravano. Sapevo che non ero finanziato da nessuno e questo mi ha concesso più tempo: se volevo spenderci un anno, come poi ho fatto, nessuno me lo impediva. Il processo ha funzionato anche per questo motivo.
Come hanno reagito le persone coinvolte?
Alcune sono miei carissimi amici con cui ho condiviso ben più di un film. Gli altri le prime volte avevano timore, c'era chi non voleva farsi riprendere da una telecamera, e poi non ero africano, non ero uno di loro e questa cosa creava sospetto. Ma alla fine la curiosità ha vinto la diffidenza. Come ti sei mosso durante la lavorazione?
Abbiamo iniziato in maniera pretestuosa, con delle interviste. Si arriva a parlare dell'arte e delle donne, di politica solo quando hai tirato fuori i soliti discorsi: mi piace l'italia, sono nero, sono discriminato, ho la famiglia etc. Superato quello arrivi a un altro livello di dialogo, più profondo e originale. Alla fine c'era così tanta voglia di esprimersi che tenevo la telecamera accesa anche per 30/40 minuti.
Quando hai capito che il film era finito?
Terminate le riprese mi sono trovato con più di 20 ore di materiale. Ho avuto bisogno di tre mesi per catalogare e selezionare. Ho visto il tutto con Alessandro Tinelli che ha composto la musica e che mi ha aiutato al montaggio. Poter avere l'opinione di una persona che guardasse con occhi nuovi il girato è servito per far nascere concretamente il film.
Che via hai usato per la distribuzione?
Una volta finito il film come primo polo di divulgazione ho voluto il Festival del Cinema Africano di Milano, che ho frequentato come spettatore per dieci anni. Grazie alla visibilità che mi ha dato il festival di Milano sono stato chiamato da altre manifestazioni: Torino, Ancona, in Spagna, ad Amsterdam e addirittura Dubay.Hai mostrato il film in alcuni licei: come hanno reagito gli studenti?La reazione è stata ottima: il pubblico, composto da ragazzini cinesi, arabi, africani e italiani sentiva molto l'argomento. E non solo l'uditorio di origine africana ha risposto, ma anche ragazzi rumeni si coinvolgevano venendomi a raccontare le loro storie.
Il vicesindaco DeCorato ha pubblicizzato molto il piano di pulizia in atto in Stazione Centrale. Le persone che hai conosciuto come hanno vissuto questa trasformazione?
Male. Si avverte il momento pericoloso. La presenza dell'esercito per le strade pesa a molti di noi, immagina cosa può essere per una persona straniera, magari senza documenti che si vede schierate in mostra le forze dell'ordine: banalmente cambia aria, va altrove. Questo rende il mio film quasi archeologia, visto che quello che si vede non esiste più. È stato messo un certo freno alla criminalità ma sia gli aspetti positivi che quelli negativi continuano, solo non sotto i riflettori. Avvicinandosi l'Expo vogliono presentare la città come un vetrina perfetta ma è un'operazione inutile senza delle vere politiche di risoluzioni ai problemi. Per ora quello che è stato fatto è solo aver spazzato via i problemi come si fa con la polvere sotto il tappeto.
Il Signor Perelà?!
Dopo Cristo, Perelà. Arriva leggero e innocente l'uomo di fumo che riscriverà il Codice. Più precisamente arriva al Teatro Litta con lo spettacolo Il Signor Perelà?! in scena dal 24 novembre al 14 dicembre 2008 e tratto dalla novella di Aldo Palazzeschi Il Codice di Perelà. Di ispirazone futurista, il romanzo è ben più che un semplice modello del movimento artistico e culturale che esplose in Italia nel 1909 con il Manifesto di Marinetti. La vicenda dell’omino di fumo che con la sua venuta sconvolge l'impero delle convenzioni diventa, nella sua frivolezza, senza tempo. Lo spettacolo, per la regia di Mariano Furlani, è la prima produzione della stagione del Litta, nonostante la genesi del progetto risalga a due anni fa, durante la lavorazione di Visioni di Solaris, altra produzione del teatro di corso Magenta. A tre attrici venne lanciata dal regista Antonio Sixty una sfida: portare in scena un testo scelto e elaborato in completa libertà, con a disposizione mezzi e spazi del teatro. A rendere concreto il lavoro delle tre giovani l'incontro con Mariano Furlani a cui va il merito di aver catturato e reso palpabile l'atmosfera ironica e insieme feroce del romanzo. Grazie al prezioso supporto di Raffaele Rezzonico, l'adattamento è insieme sintesi e superamento del testo originale: il coro di personaggi che accoglie Perelà è concentrato in tre voci dall'umanità tagliente. Bianca Delfino Bicco Delle Catene, una debole figura che trascina come un fantasma il suo amore per la non vita (e per la morfina); Donna Giacomina Bàrbero di Ca' Mucchio, femmina devota alle convenzioni, sui cui rituali della quotidianità basa ogni sua certezza. Infine la Duchessa Zoe Bolo Filzo apoteosi della femme fatale, feroce seduttrice e fredda dominatrice delle anime di tutti gli uomini. Vittime tutte e tre dell'illusione infranta chiamata uomo cercano di proteggersi, ognuna a suo modo, fino all'avvento di Perelà. A queste tre dame è dato il compito di ricevere l'Uomo di Fumo e subirne l'incanto. A tre giovani donne, in ordine Isabella Macchi, Stefania Umana e Sara Bellodi, quello di portarle sulla scena. La dimensione letteraria del testo si realizza nello spazio raccolto che è la sala LaCavallerizza del Teatro Litta, ricavata da una vecchia stalla. Su una scena essenziale ma multiforme, data da tre cassettoni mobili dipinti con il tricolore nazionale, vivranno le immagini della poesia di Palazzeschi. I costumi, realizzati da Marcella De Faveri, sono rappresentazione dei caratteri portati all'eccesso, esplosione di personalità immaginarie che danzano su sonorità futuriste. La struttura di convenzioni e buone maniere presa di mira con ironia grottesca e spietata, prende forma in una messa in scena che sfiora e combina il cabaret surrealista, le esperienze futuriste, il melodramma borghese.
Perelà? Risolverà? Si chiedono le tre Dame. Perelà prende forma nelle loro parole, nei loro racconti, impalpabile come un ricordo e, come la speranza, aureo. Un uomo perfetto, un amante ideale, il nuovo salvatore, il Dio che realizzerà ogni desiderio, crocifisso per risorgere. Egli è tutto questo ma plasmabile come una diceria, nei mormorii delle tre dame diviene anche il bugiardo, lo sciagurato che si approfitta della debolezza femminea: in fondo è sempre un uomo, mormora Zoe. Come il nuovo Gesù di The Second Advent di Mark Twain, il nebbioso messia di Palazzeschi una volta rivelato non verrà accettato dal suo popolo. E scacciato volerà via, nel cielo, risorgerà fra le nuvole. Come Cristo. Dopo Cristo. Perelà.
Antonino Valvo
Dal 25 novembre al 14 dicembre 2008
LITTA_produzioni
DEBUTTO NAZIONALE
SIGNOR PERELÁ?!
Da Il Codice di Perelà di Aldo Palazzeschi
Regia Mariano Furlani
Consulenza al testo Raffaele Rezzonico
Con Sara Bellodi, Isabella Macchi, Stefania Umana
Disegno Luci Fulvio Melli
Costumi Marcella de Faveri
Sala La Cavallerizza
Corso Magenta, 24 Milano
repliche dal martedì al sabato alle 21.00 – domenica 17.00 – lunedì riposo
biglietti € 12/ €9
ONLINE IL NUOVO NUMERO DI IMMINENTE
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La città di Dio - Paulo Lins
In un’atmosfera caotica e assolata 3 generazioni di banditi si susseguono fra le strade fangose di Città di Dio, dove la polvere della favela impasta sogni, sangue e ambizioni. Il romanzo è diviso in tre atti, ma sebbene ognuno di essi sia dedicato a un singolo bandito, in ogni pagina veniamo quasi assordati dalla potenza di una voce, che, uscendo dal coro dei disperati di Città di Dio, inchioda la nostra attenzione su personaggi secondari, ma utilissimi per farci cogliere la dimensione poliedrica di questa realtà. Anche il piano del reale e del soprannaturale si compenetrano a vicenda, e uno non esclude mai l’altro, come insegnano i culti religiosi afro-brasiliani. Grazie a vividissime pennellate di pura violenza, emergono personaggi dolorosamente umani pur nella loro insensata brutalità: attraverso un linguaggio fin troppo esplicito veniamo trascinati in un’escalation di morte che sfocerà in una vera e propria guerra, che, come tutte le guerre, non lascerà né vinti né vincitori, ma solo superstiti. Abilissimo il regista Ferdinando Meirelles, che, riprendendo la vicenda in un film alla Tarantino, la rende più unitaria attraverso le parole del narratore Busca-pè (ragazzino cresciuto nella favela) senza farle perdere niente del ritmo incalzante che contraddistingue il romanzo.
Missing - Scomparso 1982
dall'imminente del gennaio 2006
Vi sembra possibile che gli Stati Uniti, da sempre considerati il paese dei diritti dell'uomo e della libertà, possano sacrificare questi puri e giusti ideali per degli interessi di tipo economico?! Loro, che anche in tempi moderni, così difficili e controversi, si professano sempre e comunque salvatori della democrazia e dei cittadini? Insinuare una cosa del genere potrebbe sembrare un' accusa falsa e ingiustificata. Missing-Scomparso: anche il protagonista, Ed Horman (interpretato ad arte da Jack Lemmon) sembra dello stesso parere. Inizialmente. Uomo dai sani principi, con i piedi per terra: non dubiterebbe mai del suo paese, terra di opportunità nel quale lui stesso, con le proprie mani, ha potuto costruirsi una carriera. Fino al momento in cui non viene a sapere della scomparsa del suo unico figlio, Charlie (Jhon Shea) , che vive con la moglie in un Paese dell'America Latina. Siamo nel Cile sconvolto dal colpo di stato di Pinochet, dove la vita si è trasformata in un incubo angosciante: la normalità è venire perquisiti, picchiati e uccisi per strada, dall'esercito, senza la minima ragione. La normalità è scomparire da un giorno all'altro dalla faccia della terra, finendo come uno delle centinaia di corpi senza nome ammassati negli scantinati di uno stadio, come sembra sia capitato a, Charlie, cittadino americano. Catapultato in questa realtà capovolta, sconvolto
dalla perdita del figlio, Ed dovrà ricredersi su tutto: accompagnato da Beth, la dolce ma decisa (e meno ciecamente fiduciosa) moglie del figlio, inizierà un' angosciosa ricerca che lo porterà a capire come il mondo non è per forza come appare e che esistono altri modi di vivere e di vedere le cose che, sebbene diversi dal proprio, sono altrettanto dignitosi. Nonostante le promesse d'aiuto dell'Ambascita Americana, Ed si rende conto che il vero scopo di chi gli sta intorno va decisamente contro corrente rispetto al suo: la verità non deve venire a galla. Una verità che Charlie ha scoperto per caso e che vede il governo Americano come potente burattinaio dietro al colpo di stato. Che vede la CIA che appoggia l'assassinio di Allende, il candidato di Unidad Popular, che, dopo essere salito al potere nel 1970 tramite regolari elezioni, promuoveva una riforma agraria e la nazionalizzazione del settore minerario (iniziative entrambe in contrasto con gli interessi nordamericani). E che vede gli Stati Uniti come economicamente tutt'altro che dispiaciuti del governo militare e dittatoriale di Pinochet. Ed si troverà così non solo ad affrontare la disperazione per la morte di Charlie, ma anche la disillusione e l'amarezza per aver compreso quali sono i reali scopi dei suoi compatrioti "garanti dell'ordine pubblico" negli altri paesi. E l'impotenza: come sempre accade in questi casi, nonostante le denunce di Ed, nessuno verrà condannato. Il governo insabbierà il tutto. Anche la salma di Charlie tornerà in patria solo molti mesi dopo il ritrovamento del corpo, rendendo così inutile un'eventuale autopsia. Di storie "realmente accadute" come questa che ci presenta il regista Costa Gravas ce ne sono moltissime nel subcontinente americano (e non solo): nel 1964, in Brasile, gli Usa appoggiano la "rivoluzione militare" mettendo al potere il feroce dittatore Castello Branco. Nel 1903, in Colombia, gli Stati Uniti danno il loro aiuto militare a Panamà per ottenere l'indipendenza dalla nazione, in modo da averne il controllo dell'istmo. Nel 1898 Cuba ottiene l'indipendenza grazie all'appoggio Usa, diventandone poi però protettorato militare. Nel corso del 900, intervengono pesantemente nella politica dell'isola, sia politicamente sia economicamente. Nel 1961 viene proclamata (dopo una lunga guerriglia) la repubblica socialista: gli Usa, oltre all'embargo, rompono le relazioni diplomatiche. E nel 1954, in Guatemala, sono sempre i democratici Stati Uniti (che possedendo nel paese tutte le industrie più importanti, dalle ferrovie alla famosa United Fruit Company) destituiscono il presidente Arbenz. Eletto regolarmente, aveva avviato una riforma agraria che ridistribuiva la terra fra gli indios espropriati dalle multinazionali: tramite l'intervento nordamericano viene destituito e sale al potere un dittatore: Castello Armas. E la lista potrebbe continuare. Sono tante le storie come questa e tanti i modi di raccontarle. Garvas ha scelto come punto di vista quello americano, e questa è una scelta importante: forse quello che vuole suggerirci è che tutti noi che viviamo nella parte "fortunata" del mondo siamo un po' come Ed: ciechi e per lo più disinteressati. Se solo potessimo vivere esperienze simili a queste, apriremmo i nostri occhi, giudicheremmo le cose più lucidamente. Ma ci deve essere un altro modo per uscire da questa sorta di letargo mentale, al quale ci siamo autocondannati. Dobbiamo aprire gli occhi, sperando di poter fare qualcosa di più oltre al constatare di essere arrivati troppo tardi.
Il Cinema Ariosto
dall'imminente del febbraio 2007
Se è vero che il tempo presente vede lo strapotere dei multiplex sulle piccole vecchie sale cinematografiche, che arrancano e si difendono come possono dal rischio della serrata definitiva, è anche vero che ci sono piccole realtà che lottano per creare nuove strade, nuovi percorsi, per garantirsi un futuro sicuro.
Fondato nel lontano 1948 il cinema Ariosto rappresenta oggi una delle sale storiche della Milano cinematografica. La famiglia Bruciamonti, di generazione in generazione, ha gestito questo cinema in zona Magenta, diventato col passare degli anni un punto di riferimento per il sofisticato quartiere.
Il prossimo anno si festeggeranno i sessant’anni d’attività ma il cinema Ariosto nel frattempo si è ammodernato e percorre nuove strade nel mondo della celluloide, su tutte le rassegne in lingua originale e lo spazio ai cortometraggi. Se la linea delle proiezioni in lingua originale è un grande punto di forza di questa piccola sala, tanto che, come sottolineano orgogliosamente Luca Banfi (direttore artistico) e Federico Bruciamonti (erede della gestione di famiglia), chi vuole vedere film francesi in lingua originale a Milano va all’Ariosto, il grande spazio riservato ai corti lo differenzia dalle altre monosala milanesi.
Il cortometraggio all’Ariosto è “Cinebox” e “A tutto corto”. Il Cinebox è un contenitore che precede il film programmato nello spettacolo serale. Ai soliti trailer e alla pubblicità nazionale viene fatto seguire un cortometraggio. E’ un esperimento innovativo che cerca di dare risalto a opere che difficilmente troverebbero spazio e visibilità. Un tentativo che, di proiezione in proiezione, cerca di affiancare corti accuratamente selezionati al lungometraggio in cartellone. Periodicamente i corti passati sugli schermi dell’Ariosto vengono accorpati in un’unica serata a tema chiamata appunto A tutto corto. L’ultima si è svolta lo scorso 14 dicembre e vedeva la proiezione di quattro cortometraggi, presentati in sala dai rispettivi registi. Il prossimo 22 febbraio si replica… Opportunità non indifferente per cinefili e aspiranti registi è la possibilità di inviare corti fatti in proprio direttamente all’Ariosto che, con CBL Movie Italia, cerca nuovi corti da proiettare.
Questo rimane tuttavia un momento difficile per i cinema cittadini, le piccole sale devono fare i conti con nuove realtà (i tanti multisala e il ricorso sempre più rapido all’home video) e sono tanti quelli che nella nostra Milano hanno chiuso e dovranno chiudere. Recentemente lo splendor in zona Piola-Lambrate ha cessato la propria attività, prima è stata la volta del Nuovo Arti da sempre punto di riferimento per i film dedicati ai più piccoli, mentre dall’anno scorso il Metropol in viale Piave, una delle sale più antiche della città, si è trasformato in sede per le sfilate di Dolce&Gabbana (un esempio questo colmo di significato). L’Ariosto propone la sua ricetta per resistere nel mercato del cinema globale: film di qualità (fa parte del network Europa Cinemas) e quel fedele pubblico di quartiere che nell’epoca moderna, specie nelle metropoli, sembrava diventato pura utopia. Paradossalmente è invece quella ricerca del tradizionale, dell’antico, di (concedetecelo) quel po’ di milanese che affascina, a portare nuovi spettatori nella piccola sala di via Ariosto, in controtendenza rispetto alle migrazioni verso i rifugi dei tanti multisala fuori porta.
www.cinemaariosto.it
Evulozionismo vs Creazionismo
Nelle sale statunitensi è da poco uscito un film: Expelled: No intelligence allowed di Nathan Frankowski, raccontato da Ben Stein un famoso scrittore e comico americano. La pellicola propone una tutt'altro che celata incapacità nell'accettare la teoria darwiniana, rivendicando il diritto ad insegnare nelle scuole la dottrina del creazionismo durante le ore di scienze. Oltre ad attaccare direttamente alcuni famosi biologi evoluzionisti Richard Dawkins e Daniel Dennett, Stein arriva a denunciare pubblicamente le idee di Darwin, definendole un "doloroso e orribile capitolo della storia delle ideologie" e affermando che essa avrebbe fornito il substrato ideologico ispiratore per lo sviluppo dei regimi totalitaristici quali il Nazismo e il Comunismo. Frankowki raccoglie una serie di testimonianze di insegnanti e scienziati, come Richard Sternberg e Caroline Crocker, che sarebbero stati licenziati per aver sostenuto la teoria del disegno intelligente, la teoria secondo cui un intelletto divine dirige l'evoluzione degli esseri viventi.In risposta potrebbe bastare citare alcuni fatti. Il 20 dicembre 2005 il giudice John E. Jones III, nominato dal presidente Bush, a seguito di un processo, emise una sentenza nella quale dichiarava l'incostituzionalità dell'insegnamento dell'intelligent design nell'ambito dei corsi di biologia. Inoltre nessuno è stato espulso dall'università a causa delle critiche all'evoluzionismo (come facilmente dimostra la permanenza di Michael Behe al dipartimento di biologia dell'università di Lehigh). Basta poi informarsi e leggere qualche scritto di Charles Darwin per accorgersi dell'evidente assurdità e incongruenza del parallelismo tra teoria dell'evoluzione e sviluppo delle idee razziste: come Maria Turchetto, alla quale esprimiamo tutto il nostro appoggio, ci ricorda sull’ Ateo , Darwin, il quale aveva orrore per la schiavitù, nell'"Origine dell'uomo" espresse pensieri sentitamente antirazzisti, promovendo quell'ideale di "simpatia universale" che dovrebbe essere esteso ad ogni civiltà e società umane.Ma limitarci a riportare dei semplici fatti ci porterebbe davvero ad una riflessione costruttiva? Cadremmo nello stesso errore dei teorici che si rifugiano all'interno delle fortezze inespugnabili costruite sulle fondamenta delle loro convinzioni dogmatiche ed inattaccabili. Ci sembra più opportuno porre l'accento sul significato che diamo alla parola "scienza". E' davvero ragionevole pensare che la teoria creazionistica possa essere insegnata nelle scuole come teoria scientifica alternativa all'evoluzionismo? Secondo noi no. Riportando l'abusata ma estremamente efficace citazione del genetista Theodosius Dobzhansky "in biologia nulla ha senso se non alla luce dell'evoluzione". Dal momento in cui la teoria darwiniana fu ideata, poi discussa, ampliata e attualizzata secondo le più recenti scoperte, non è possibile leggere le moderne teorie intorno ai fenomeni della vita e della natura prescindendo da una visione evoluzionistica. Essa è alla base di ogni modello scientifico elaborato su qualsiasi livello, dal molecolare al cellulare, fino ad arrivare agli organismi viventi e, in modo evidente, alle popolazioni. Non stiamo sostenendo che il racconto della creazione debba essere eliminato dai programmi scolastici: la Genesi e tutti i testi sacri sono parte integrante della storia culturale occidentale, la nostra storia. Lasciamo però tale compito alle ore di religione, di storia, o di catechismo.
Tutta la vita davanti
Processo alla satira
Lo scorso 8 luglio a Piazza Navona a Roma, è stata indetta una manifestazione contro le cosiddette leggi canaglia del governo Berlusconi IV, che riguardano la libertà di informazione, di indagine giudiziaria e le norme riguardo la schedatura di cittadini extracomunitari romeni. Dal palco, su cui si sono succeduti decine di interventi, Sabina Guzzanti ha denunciato alcuni fatti riguardanti l'ingerenza della Chiesa nella vita politica, la crescente tendenza alla legittimazione di fenomeni di matrice razzista e infine la scelta di affidare il Ministero delle Pari Opportunità a Mara Carfagna, coinvolta, secondo un diffuso giornale argentino, in uno scandalo a sfondo sessuale insieme al Premier Silvio Berlusconi. Tanti interventi, tanti attacchi al sistema vigente in Italia, ma a far scalpore sono state le parole della Guzzanti e quelle di Beppe Grillo che invece prendevano di mira l'atteggiamento tenuto dal Presidente della Repubblica Napolitano nei confronti di quelle leggi contro cui era la manifestazione.
La libertà di parola e di pensiero sono alla base della struttura democratica, e i due comici ne hanno fatto uso come era giusto che fosse, consapevoli delle reazioni che avrebbero suscitato sia nel pubblico lì riunito, sia nell'opinione pubblica. Il punto è che qui non stiamo parlando di informazione o libertà, stiamo parlando di satira. E la satira è tutta un'altra storia. Aldilà della sua storia e del significato, la Corte di Cassazione ha dato questa definizione di satira: " [la satira] È quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene. " La satira è di natura contro il potere, ma non per questo il potere non se ne può servire: "Ritengo che la satira sia uno strumento utile nel dibattito politico […] il mio capo ufficio stampa ha avuto la disposizione di pormi in evidenza tutte le mattine gli attacchi alla mia persona. In questo modo posso correggere i miei eventuali errori. A mio avviso, alla satira non dovrebbero essere posti limiti, se non quelli suggeriti dal buon gusto". A parlare era il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ma ancora: "La satira è stata sempre utile a un corretto sviluppo della politica, anche su un piano di radicazione culturale degli atteggiamenti critici […] i limiti devono essere lasciati al costume. Non credo compatibili con la libertà democratica limiti politici di qualsiasi natura." Parola del senatore Giulio Andreotti.
Ma se la satira non è politica, perché si è tentato di procedere giuridicamente contro Beppe Grillo e Sabina Guzzanti per le affermazioni di piazza Navona? Offesa al presidente della repubblica e a capo di stato straniero da uno a cinque anni di carcere, è stato detto. Gli interventi dei due comici erano opinabili ma i fatti su cui si basavano incontestabili. Quindi è il linguaggio che porta all'offesa. Ma la satira per sua stessa natura usa un linguaggio diretto, cattivo e, sì, anche volgare. Quello cercato di aprire è stato un processo alla satira come fenomeno di costume. Un discorso di esecrabile censura? La questione non è così semplice. Nei casi citati e in altri eclatanti (chiusura del programma di Luttazzi e della stessa Guzzanti) il problema è sempre stato la possibilità di poter comunicare a un gran numero di persone, una massa la cui opinione conta pesantemente nella vita pubblica. Ecco il perché del blocco, della censura. La satira è libera ma non può essere imposta: è offensiva, e il ragionamento fila, considerando che in certi mezzi di comunicazione chi riceve il messaggio è molto più vulnerabile e inconsapevole che in altri media (come la carta stampata e internet). Quello che ora vorremmo denunciare quindi non è il regime, la carenza di democrazia, ma l'ipocrisia che sta dietro a gesti che finiscono per nuocere soltanto a comici e artisti che lavorano. Non esiste il reato di vilipendio al Pontefice, fu Craxi a cancellarlo. Inoltre è stato abolito anche l'articolo riguardo l'offesa di un capo di stato straniero. L'accusa voleva probabilmente sollevare sdegno e i soliti dibattiti scontati e scoraggiare nuovi interventi non graditi. Fermare un certo tipo di satira. Se ci sono riusciti o meno solo il tempo ce lo potrà dire. Per ora, facciamoci una bella risata.
Antonino Valvo
Orchestra di via Padova
Se volessimo parafrasare uno dei titoli più parafrasabili di sempre, "L'amore ai tempi del colera" di Garcia Marquez, parleremmo de "L'integrazione ai tempi del Decreto Sicurezza". Via Padova e dintorni da questo punto di vista rappresentano uno degli snodi più delicati di Milano, e probabilmente del Paese intero. Interviene allora la musica: non procede per DDL, e fornisce implicitamente risposte forse un poco ingenue, ma di quella dose di buona ingenuità di cui si sente un disperato bisogno ai tempi, stavolta, delle impronte rilevate ai bambini in quanto Rom, e del reato di immigrazione clandestina.
In via Padova dall'ottobre del 2006 vive e suona un'Orchestra, secondo un modello fortunato e collaudato - lo stesso modello che anima la più famosa Orchestra di Piazza Vittorio a Roma ed altre sorelle minori a Genova in piazza Caricamento e a Torino in Porta Palazzo: si forma un complesso musical-territoriale, con musicisti di nazionalità diversa che vivono nella medesima zona, per lo più rinomata per la convivenza irrisolta delle diversità, e si portano i risultati del connubio tra la gente. Si mostra la faccia buona delle zone cattive, fingendo si scordare quanto la lotta sia impari contro chi propugna solo la faccia cattiva, senza però prendersi la briga di indicare prospettive e vie di uscita.L'Orchestra di Via Padova, appunto: 15 elementi e 9 nazionalità apparentemente stridenti - in ordine sparso Estonia, Perù, Cile, Burkina Faso, Marocco, Serbia, Cuba e Italia. Dicono di loro stessi: "Ognuno di noi ha portato con sé un po' della propria tradizione musicale. Ed ognuno si è poi prestato alla sperimentazione e al confronto, realizzando un mélange sonoro inedito e travolgente". Dopo diversi mesi di notorietà basata sul passaparola e la bontà della formula, finalmente il 23 maggio è uscito "Tunjà", il primo disco dell'Orchestra che, sia detto senza voler offendere nessuno, non è proprio la solita banda da Festa dell'Unità. Chi volesse avere un assaggio può visitare il myspace all'indirizzo www.myspace.com/orchestradiviapadova, oppure andare direttamente a trovare l'Orchesta durante il tour, quando attraverserà la penisola per animare piazze e manifestazioni: il momento è particolarmente propizio, perché sembra proprio che il gruppo sia giunto allo stadio, per tutti dorato, del "quasi-famosi" che permette un prezioso contatto diretto a prezzi modici o nulli.Infine potrebbe essere l'occasione - perché no - di scegliere una giornata non piovosa per visitare via Padova e dintorni di persona, magari con macchinetta digitale e discrezione, e battezzare la zona in autonomia: dolce o famigerata, o più probabilmente tutt'e due.
Giacomo Giudici
I corti di Nash Edgerton
I fanatici del web e dei cortometraggi forse già conosceranno la Blue Tongue Films, ma per chi non lo sapesse bisogna dire che è un'affermata casa di produzione cinematografica australiana specializzata in cortometraggi che hanno girato nei festival di tutto il mondo. La particolarità di questa casa consiste nel fatto che alla distribuzione canonica dei suoi prodotti preferisce la pubblicazione on-line su bluetonguefilms.com, un sito semplice che punta tutto sull'"archivio" di cortometraggi di assoluto valore. Di particolare qualità artistica, tecnica e narrativa sono Spider e Lucky, entrambi scritti e diretti da Nash Edgerton, già famoso come stuntman in film quali Star Wars e Matrix.
Spider concentra in 9 minuti la riappacificazione di una coppia durante un viaggio in auto e uno scherzo che lui fa a lei. Il film si apre con la citazione di una mamma che dice "It's all fun and games until someone loses an eye" e mostra gli effetti di uno scherzo con sbalorditivi effetti visivi non mascherati da un facile montaggio che permette l'uso di tecniche banali. Edgerton non stacca mai quando ci si aspetta che debba farlo, al punto che si arriva a chiedersi "ma come ha fatto?". Anche la messa in scena assolutamente realistica contribuisce a rendere il film più credibile e aumenta lo stupore che da visivo diventa una sorta di divertente reazione da "è orribile, ma insegna qualcosa". Guardare Spider è come leggere una breve storia d'immaginazione.Lucky, invece, è la storia di un uomo che cerca di uscire da una macchina lanciata a tutta velocità. C'è bisogno di sapere altro? No. I 3 minuti senza dialogo di Lucky ci ricordano con piacere quanto un film possa essere coinvolgente e si rimane sorpresi da quanto si possa fare con così poco in termini di set, durata e attori. L'ambientazione in una strada deserta e una luce naturale davvero ben utilizzata aggiungono un tocco realistico alla grande sorpresa che il finale riserva allo spettatore.Dopo aver visto Spider e Lucky può sembrare che Nash Edgerton abbia la mente un po' distorta, invece mostra una capacità straordinaria nell'inserire estreme situazioni da stuntman in contesti realistici. Un accoppiamento forte, che non stride ma colpisce, e che rivela tutta la forza del cinema.
Michele Comba
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Alla scoperta della Civica Raccolta delle Stampe Bertarelli e del Civico Archivio Fotografico
Uno degli adagi ricorrenti del milanese ottimista (purosangue o di adozione) recita più o meno così: "non è vero che Milano non propone cultura, non è vero che Milano è solo la città dei danée. Milano ha del buono, ma lo nasconde". Da queste classiche sentenze, l'altrettanto classico corollario: che uno dei motivi di fascino di Milano sia proprio il fatto che la città non si getta addosso al primo venuto, e nemmeno a chi ci abita da sempre, ma va scoperta in proprio. Tutto questo probabilmente è banale, ma anche vero. E un modo per verificarlo è visitare due archivi milanesi, posti nello stesso luogo fisico - si trovano al Castello Sforzesco - ma molto diversi tra loro: la Civica Raccolta delle Stampe Bertarelli e il Civico Archivio Fotografico di Milano.Importanti le analogie: si tratta di due istituzioni che a buon diritto possono essere definite storiche - l'archivio Bertarelli nasce nel 1925, l'archivio fotografico nel 1933 - e imponenti, considerando che conservano rispettivamente un milione di stampe e seicentomila fotografie. Inoltre, e vale la pena sottolinearlo, si tratta di luoghi pubblici, aperti a chiunque voglia impegnarsi in una ricerca, animato anche solamente da semplice curiosità. La burocrazia è ridotta al minimo, è sufficiente prendere un appuntamento per contare sull'aiuto del personale e ottenere il materiale desiderato.Quale materiale? Ecco le differenze. Per parlare della Raccolta delle Stampe, eccezionale istituto, non si può partire da una storia altrettanto eccezionale: quella di Achille Bertarelli (1863-1938), filantropo milanese, eccentrico appassionato di iconografia e grafica popolare che, preferendo delle stampe il soggetto rispetto al "mero" lato artistico, ne raccolse in vita quasi trecentomila, che donò al Comune prima della sua morte, formando così il nucleo originale della raccolta e regalando al pubblico la straordinaria testimonianza di un'epoca. E non solo, perché la caratteristica principale dell'archivio Bertarelli è sicuramente la varietà: dire che si trova tutto, qui, non è un'esagerazione - dalle xilografie quattrocentesche ai manifesti pubblicitari di primo novecento, carte geografiche e vedute provenienti da tutta Italia e dall'Europa, soldatini, grafiche popolari sacre e profane, biglietti da visita e d'auguri di ogni epoca. Il visitatore che consulta il catalogo rimane affascinato dalle possibilità che offre la raccolta, amplissima nello spazio e nel tempo, e il rischio è soprattutto quello di perdersi nell'abbondanza. Il risultato è un archivio sui generis, probabilmente unico in Italia.In confronto all'esplosività archivistica del Bertarelli, il Civico Archivio Fotografico sembra impallidire, ma è decisamente solo un'impressione. E' vero che il patrimonio è più ristretto - 600.000 documenti (negativi e positivi, dagherrotipi, carte salate e così via) che coprono un arco di tempo che va dal 1840 ai giorni nostri - ma è anche vero che qualsiasi documento risulta estremamente pregnante. Il grosso delle testimonianze, infatti, riguarda Milano fino al secondo conflitto mondiale compreso: questo fa dell'archivio, prima di tutto, un fondo straordinario di memoria storica. Ed infatti, oltre che dagli specialisti, è visitato da milanesi semplici che vogliono soddisfare visivamente qualche domanda, qualche curiosità, sulla propria città per come è stata prima che gli interventi di epoca fascista (come la copertura dei Navigli), i bombardamenti e l'urbanizzazione ne cambiassero per sempre il volto. Anche in questo caso, una semplice occhiata agli estremi dei cataloghi fa capire immediatamente il valore del patrimonio, per varietà e qualità. Oltre alla larghissima sezione su Milano, ci sono poi interessanti incursioni fuori d'Italia, in Europa ed oltre: ad esempio, fotografie ottocentesche di Groenlandia e Giappone - come scoperchiare altri mondi.
Civico Archivio Fotografico
Archivio Bertarelli
Giacomo Giudici
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Per poter ritirare in anteprima il nuovo numero l'appuntamento è per domani nel colplesso didattico di via Celoria in Città Studi a Milano.
Dolcina e Dolcissima - teatro agricolo
Il coraggio del rivoluzionario messaggio di Frà Dolcino e Margherita – una novella di uguaglianza fra uomo e donna, del diritto di ogni contadino di pregare a modo suo, col suo linguaggio, di una croce di legno e fango – si coniuga con quell’incoscienza di chi vuole credere che una società, anche la più disgraziata, possa essere cambiata.
Il linguaggio scenico di questo teatro agricolo gioca tutto sul peso delle parole, di semplici gesti, dell’intensità degli sguardi, facendo virtù delle necessità. Se i mezzi sono ridotti al minimo – una scena spoglia, due scranni-tronchi d’albero che si improvvisano sgabelli e pulpiti, dei semplici costumi da frate – è anche perché non si potrebbe immaginare diversamente uno spettacolo che prende le mosse dalla vicenda di Francesco d’Assisi e Gherardino Segalello, per occuparsi del movimento dolciniano, diffusosi a cavallo del XIV secolo.
Isabella Macchi e Giovanni Balzaretti alternano così parti narrate, con dovizia di dettagli, a recitati in dialetto valsesiano; e se il narrato risulta un poco didascalico, al contrario, quando i due attori indossano i panni dei protagonisti della vicenda dimostrano una notevole padronanza della lingua e delle tecniche teatrali dell’epoca, combinata ad una capacità interpretativa di forte carica suggestiva.
Siamo dinanzi a quel teatro che, in un certo qual modo, si preoccupa di restituire dignità al Medioevo – e nello specifico ai popolani medievali –, periodo storico che Teatro non aveva, secondo un lavoro di ricerca e messinscena non dissimile dal “Mistero Buffo” di Fo e Rame. E non è un caso che la celebre “giullarata” di Bonifacio XIII parlasse proprio di Dolcino.
Seguendo il percorso inverso rispetto alla scelta narrativa di “Dolcino e Dolcissima”, cogliamo ora le ragioni storiche per le quali l’azione di questa coppia di eretici fu così importante e rivoluzionaria. I mezzi di propaganda della Chiesa di allora erano immensi, basta pensare agli squadroni di “predicatori apocalittici” che, a ridosso dell’anno Mille, avevano convinto tutta Europa dell’imminente fine del mondo, in quello che è considerabile a tutti gli effetti un atto terroristico. Al confronto con questa potenza mediatica della Chiesa, il lento e costante operare di Dolcino e Margherita – forti dell’insegnamento del giubilate francescano – costituiva una controtendenza che sapeva modificare le coscienze dal profondo dell’animo.
Il Vescovo di Vercelli reagì come ci si poteva aspettare da un alto prelato della Chiesa di allora: dapprima scomunicando l’intera comunità comunarda, e proto-socialista, della Valsesia, e in secondo luogo, con l’obiettivo di eliminare fisicamente tutti i dolciniani, assoldando balestrieri mercenari cui era concesso il consueto diritto di saccheggio e stupro.
Intervista a Marina Spada
dall'imminente del dicembre 2006
È’ più difficile fare del cinema a Milano?
Secondo me è difficile fare cinema, Milano, Torino, Pavia o Bologna. Anche a Roma è difficile. Basta vedere che alla sezione esordi del Festival di Venezia quest'anno non c'era neanche un italiano. Questo è un paese che non investe: i milioni preferisce spenderli per una Festa del Cinema, piuttosto che promuovere i nuovi talenti e consolidare quelli che ci sono. Se non vengono affrontati questi problemi fare del cinema, già difficile in partenza, diventa quasi impossibile. In ogni caso secondo me è più facile fare del cinema a Milano. Certo, bisogna chiedersi cosa è cinema. Fare fiction televisiva è più facile a Roma che in Lombardia: Milano è sempre stata cinema contro, di ricerca, cinema altro, di barricata. A Roma mettersi a fare un film con 50 mila euro è una cosa da pazzi, noi lo facciamo. Essendoci poi meno baroni e meno preconcetti, senza contare la scuola del cinema che sta dando molto a questa città, e soprattutto la voglia - cioè qui non si lavora alle poste, non è che alle cinque si saluta e si va a casa - credo che forse a Milano si faccia più cinema che da altre parti.
È solo una questione di soldi? O c'è anche una mancanza di idee?
Beh sicuramente in partenza è una questione di soldi, perché se ci sono nuovi talenti senza i soldi non lo sapremo mai. Le idee d'altronde è molto raro che ci siano. Il problema è a monte, perché le nuove generazioni vengono cresciute in modo passivo, le si istruisce a rispondere a comando. L'unica soluzione è rifondare il sistema educativo, e far sì che le persone non vengano ammaestrate, ma trattate come esseri pensanti.
Quali sono i problemi che si incontrano quando si ha una buona idea?
Quando si ha una buona idea non si incontrano problemi. Io ho sempre visto che quando c'è una storia valida, prima o dopo si riesce a metterla in atto. Il consiglio è di lavorare moltissimo sulla sceneggiatura, senza la quale non si può avere il film, né tanto meno gli appoggi per farla. Quello che dico sempre ai miei allievi è, va bene lavoriamo gratis, ma leggiamo la sceneggiatura perché se è una boiata abbiamo di meglio da fare. Detto così sembra che per fare un film basti averne la voglia.Il problema non è tanto fare i film, ma distribuirli. Tu puoi avere anche il film dell'anno ma se non incontri una distribuzione, perché sei lontano da Roma, non per chilometri ma per relazioni, il tuo lavoro non lo vedrà nessuno. E non è un problema milanese ma italiano.Quindi la crisi del nostro cinema è dovuta a una carenza distributiva, non è colpa dei produttori. In Italia mancano produttori degni di questo nome: il produttore è un imprenditore che decide di lavorare e investire nel cinema e per farlo deve riconoscere il talento e i meccanismi per farlo emergere. Oggi in Italia ci sono solo produttori esecutivi: persone spesso poco competenti che comunque non mettono in gioco capitali propri.
Entrando un momento nella disputa condominiale fra Venezia e Roma, noi crediamo che Venezia abbia un'autorità che non vada toccata, lei cosa ne pensa?
D'accordissimo. Non capisco perché in tutto il mondo le istituzioni vengano conservate e aiutate, e noi che abbiamo uno straccio di festival che conta qualcosa andiamo a picconare anche questo. Riduciamo sempre tutto a qualcosa di locale, ed è per questo che nascono queste inutili rivalità. Semmai il festival di Venezia va rimpolpato costruendo nuove sale, mettendo a disposizione degli alberghi che non costino 400 euro e che non facciano schifo. E poi mica siamo l'America, quanti festival dobbiamo avere?
Lei insegna da più di dieci anni alla Civica Scuola di Cinema e Nuovi Media di Milano, qual è il ruolo della scuola nella nostra città?
Ha seminato tante di persone in grado di fare questo lavoro e alle quali è possibile attingere per i propri progetti. I miei alunni al primo anno già cominciano a lavorare ai loro lavori, o vanno a fare da assistenti a coloro che si sono diplomati da qualche anno. Esiste un tessuto professionale a cui fare riferimento. È un'istituzione che sta crescendo come presenza effettiva sul territorio.
Milano è una città cinematografica?
Assolutamente sì e il mio film ne è la testimonianza. In Come l'Ombra Milano si vede tantissimo perché sono milanese e mi interessa parlare della città. Il mio film non potrebbe essere ambientato che qui. O almeno in termini locali. Certo potrebbe essere una città del Nord America, del nord della Francia, della Germania. In questo momento stiamo lavorando per farlo uscire in sala.
Domanda di rito: quali sonoi film che hanno influenzato il suo lavoro? Secondo lei cosa è cinema? Quando siamo di fronte al cinematografico?
Tutto è cinematografico perché tutto può raccontare una storia, un punto di vista, una posizione politica e civile. Se invece ci chiediamo cosa è il cinema, come diceva Bazin, io credo esistano due cose distinte: l'intrattenimento e il cinema. Il cinema emana esprime un punto di vista con l'occhio, che è un punto di vista della mente, che è un punto di vista etico sulla vita.
Appunti di cinema transgender
“(…) Quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica signora mia... e in questo non bisogna essere tirchie, perché una più è autentica quanto più somiglia all'idea che ha sognato di se stessa.”
(Antonia San Juan – Agrado –Tutto su mia madre)
A partire dall’ ultimo decennio sono state realizzate numerose pellicole in grado di declinare la ricerca dell’ identità sessuale e la tematica “transgender”, le quali hanno certamente fruito di una maggiore libertà espressiva e “trasgressiva” dettata dal maturare dei tempi. Mi chiedo, ad esempio, come invece poteva essere negli anni Sessanta, nel nostro Paese, assistere alle immagini di un film come Frenesia dell’ estate (Luigi Zampa, 1963), nell’ episodio in cui Vittorio Gassman, integerrimo colonnello di marina, viene turbato in un locale notturno dall’ attrazione per una donna che crede un travestito (cosa che invece non è): la rappresentazione del disagio psicologico ed emotivo che il solo pensiero genera nel protagonista è emblematica. Piccoli e grandi “outing” post ’68 nel Vedo Nudo di Dino Risi, protagonista un Nino Manfredi zelante impiegato con doppia vita al femminile, con tanto di vestaglietta e ciabattine rosa. Iconografia quasi anticipatrice dell’ esplicitazione apertis verbis della “coppia di fatto” de Il Vizietto di Edouard Molinaro (1978). Renato (Ugo Tognazzi) e Albin (Michel Serrault) gestiscono un night per travestiti, dove quest’ ultimo si esibisce come “Zaza”. Il film ha segnato profondamente l’ immaginario collettivo, tanto da avere ben due sequel ed un remake hollywoodiano, Piume di Struzzo (1996), con Robin Williams ed un grandissimo Nathan Lane. Tornando al presente, sono stati prodotti di recente in Italia alcuni significativi documentari, prove sincere di consapevolezza e realismo. In particolare Cachaça (F. Benvenuti, 2005) e Crisalidi (F. Tinelli, 2005). Da segnalare anche Come mi vuoi di Carmine Amoroso (1996), in cui il mondo trans è volutamente dipinto con grande crudezza; pellicola in cui ha esordito anche Vladimir Luxuria, che ritroviamo nel più recente film a tema: Mater Natura (Massimo Andrei, 2005). Quest’ opera ha colpito per le sue caratteristiche vivide e visionarie, nonché per la commistione di ispirazioni e stili, dalla sceneggiata partenopea, a Pappi Corsicato, al maestro Almodovar. Nel film di Andrei prendono vita personaggi estremi, ma non per questo meno autentici nella loro umanità. Questo è ciò a cui gli spettatori non possono restare indifferenti: Almodovar insegna che dinanzi all’ impetuosità della Vita e delle sue passioni, che sono commedia e tragedia al tempo stesso, non dobbiamo temere di addentrarci in mondi spesso eccentrici, trasgressivi. E’ un invito a sospendere la nostra incredulità, ad abbandonare i canoni della verosimiglianza e, perché no, dei falsi moralismi di tanti “benpensanti”.
Jessica Perini
Luigi Tenco - La canzone di protesta prima della rivoluzione
"Bisogna creare qualcosa, rompere il cerchio che ci soffoca, altrimenti è meglio piantare tutto. Non si vive per riuscire simpatici agli altri. A me i soldi, il successo, non interessano, li lascio a quelli più furbi di me in questo genere di cose".
“Il miracolo economico…Balle, roba da giornali.. Si il miracolo c’è, ma per i ricchi, ma quelli nascono miracolati.” La cuccagna è un film sul Miracolo Economico che racconta un’Italia, quella degli anni ’60, incastrata in un limbo disordinato, fra nostalgie del ventennio, voglia di costruirsi un futuro, rabbia, apatia e ingenuità. Ciò che ci viene mostrato è solo l’assenza del boom di cui tutti parlano, che sembra essere più una tendenza culturale che una reale rivoluzione sociale.
Luigi Tenco questo l’aveva capito e lo cantava nelle sue canzoni. E forse anche per questo Luciano Salce lo scelse per recitare la parte di Giuliano, un ragazzo contro, arrabbiato con la società e incapace di accettarne le troppe colpe ingiustificate. Non si trattò di una parte di protagonista, perché per un personaggio come quello di Giuliano un simile ruolo era impossibile nella storia di quegli anni: non c’era spazio per coloro che non si ubriacavano di Boom allora. Per questo Giuliano altri non è che un anticipatore dei contestatori che dal ’68 metteranno in atto una rivoluzione culturale nei confronti del sistema sociale italiano. Ma Luigi Tenco è qualcosa di più che un semplice precursore della rivoluzione. Certo qualcosa di diverso. Siamo nel 1966 quando durante un dibattito sul tema "La canzone di protesta" tenutosi al "Beat 72" di Roma, un gruppo di contestatori istupiditi da troppa vuota ideologia si scaglia con il cantautore accusandolo di non fare vera protesta attraverso la sua musica, ma anzi di essere un venduto, un ipocrita, speculando con le sue parole. Tenco viene chiamato mistificatore e servo sciocco perché con le sue canzoni non fa che far guadagnare coloro contro cui esse sono rivolte. Ma è una qualcosa di diverso da una rivoluzione ciò che Luigi Tenco vuole portare avanti: “ Se dentro le canzoni ci metto delle idee, queste idee si trasmettono con le canzoni. Solo che per diffondere adeguatamente le canzoni è necessario che io trovi la maniera di farlo con gli stessi strumenti della società a cui mi rivolgo. Altrimenti è inutile, ne fai a meno, non protesti.” Una dichiarazione tanto matura quanto impopolare, soprattutto nei confronti di quei movimenti che di lì a poco si lanceranno contro un status quo con l’intenzione di stravolgerlo, con l’unica certezza di non voler scendere a compromessi. Ma non si tratta di compromessi neanche per Tenco: “ Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza. Io sono come sono. E poi la mia non è una protesta che nasce intellettualmente, con il fatto di dire adesso io protesto contro Tizio o contro Caio. Nasce al di fuori della propria volontà, dal fatto che uno si sente estraneo a un dato meccanismo... Cioè io insomma le canzoni come le fa Morandi, non le so fare. Succede che a un certo punto mi salta la gomma e dico: ecco, io il militare non lo voglio fare, non so andare a morire... E questo è uno sfogo spontaneo, una protesta sincera. Non è stata studiata al tavolino. Così le parole di quasi tutte le mie canzoni esprimono questo senso, come dire, di malessere. Si può protestare in mille modi. Questa è la maniera mia, e viene dal mio carattere.”
Tanto ci sarebbe da dire della personalità tormentata di questo complesso cantautore italiano, ma da crediamo che meglio di qualsiasi tributo o biografia siano le sue musiche a raccontarci il suo carattere e la sua visione della vita, e poi ci piace pensare che forse proprio questo dar voce a ciò che Luigi Tenco teneva a far sapere riguardo la sua opera e il suo lavoro sia la maniera migliore di rendere onore uno dei maggiori cantautori italiani.
- Alla lunga, magari senza accorgertene, il meccanismo che tu credi di aver conquistato, ti condizionerà. E finirai anche tu come gli altri. Vedi Modugno, che cominciò con le canzoni sui minatori e i pescatori siciliani...- Padroni di pensarla come volete. Io ho preso una strada che a me sembra buona e non la mollo. Anzi, mi sembra tanto buona che vorrei avere un pubblico sempre più grande, immenso, tutto quello che con i mezzi industriali di oggi è possibile raggiungere. E il giorno in cui riuscissi a farcela, e ad avere questo pubblico dalla mia, state pure certi che non lo inviterò a volare nel blu dipinto di blu...
Il Museo del Cinema di Milano
Museo del Cinema - Collezioni della Cineteca Italiana
Palazzo Dugnani - Via D. Manin, 2/B20121 MilanoTel 02.655.49.77
Orari di apertura: da venerdì a domenica dalle 15.00 alle 19.00
Proiezioni: ore 16.00, 17.00, 18.00
Ingresso: Adulti E 3.00 ; Bambini E 2.00
Antonin Artaud - Uomo di Cinema
Nell'arco discendente del suo astro l'artista rimase deluso dalla macchina cinema: "Il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio, fatto a pezzi, non permette alcun rimescolamento né alcuna ripetizione, condizioni maggiori della lacerazione della sensibilità". Probabilmente pensava che fosse impossibile trasferire sullo schermo i principi del suo "teatro della crudeltà". Ignorava quanto il suo pensiero avrebbe influenzato le generazioni a venire.