Remember Polaroid

http://www.polaroids.net/


L'8 febbraio 2008 la Polaroid Corporation ha annunciato che cesserà la produzione delle pellicole istantanee usate nelle macchine fotografiche Polaroid. Questa macchina fotografica, che ha accompagnato tutta la giovinezza di quella generazione che oggi si appresta ad andare in pensione, andrà in pensione con loro. Niente più click e stampa immediata fino ad esaurimento scorte. La Polaroid fu una rivoluzione. Appena scattata una foto potevi vederla subito, dopo averla sventolata un po', e appiccicarla, storta, dritta o sottosopra, nel primo posto
che capitava. Ne scaturiva un ambiente in cui eri circondato da colori, foto allegre e familiari. Da qui nacque quel "porno familiare" oggi ampiamente riconosciuto come forma d'arte contemporanea. Più o meno bizzarre le reazioni alla notizia della chiusura: qualcuno ha
ordinato 12 pacchi da 600 film di pellicola, qualcuno ha aperto un sito chiamato Save Polaroid lanciando, con una strizzatina d'occhi alla serie TV Heroes, la sua campagna "Save Polaroid, save the world", e qualcun altro ha organizzato un'uscita in grande stile per una grande piccola macchina fotografica. Questo è quello che succede su polaroids.net, un sito che raccoglie foto scattate con una Polaroid SX 70 e che lascia il piacere assoluto di entrare in un'altra relazione con l'immagine.
Qui, nel nulla sobrio di uno stilizzatissimo sito, ci si trova di fronte ad emozioni e impressioni di chi ha giocato con il proprio corpo e coi colori del reale creando dei "color kit", gallerie di colore.
La forza del sito sta nella presa di significato dei giochi cromatici, nell'ordine non stabilito, se non addirittura casuale, delle immagini, e nel ritmo per nulla aleatorio della durata della visione. Bellissima è la sezione "mère & fille" in cui trova spazio la nostalgia derisa in modo serio. In due foto, una accanto all'altra, troviamo una mamma nel 1950 quando mamma ancora non era, e sua figlia oggi. Stessa posizione, stesso sorriso o stessa sorpresa nell'essere fotografata e stessa età, a ricordarci come la Polaroid c'era, c'è, ma non ci sarà più. Sono due foto separate nel tempo reale, ma unite dal tempo della Polaroid. Allo spettatore non resta che accettare di sentirsi solo un individuo passivo di fronte a delle immagini e lasciarsi coinvolgere.

Michele Comba

Cinema a luci rosse a Milano

Di questo è bene che non se ne parli



Qualche estate fa una emittente televisiva locale lombarda fu protagonista di un’insolita operazione di recupero cinematografico. All’interno della programmazione di terza serata, luogo elettivo dello spettacolo trash e porno soft, cominciarono a essere proiettati alcuni film erotici in bianco e nero, risalenti alla metà del secolo scorso, talvolta addirittura agli anni del muto. Non si trattava, in fondo, che di una serie di spezzoni di qualche minuto ciascuno, di alcuni episodi tratti da pellicole sparse, montati in sequenza chissà quando e chissà da chi, e acquistati in blocco a basso prezzo da qualche impresario padano improbabilmente cinefilo. Da un lato, quelle immagini apparivano quasi commoventi nella loro ingenuità: per le poche nudità esposte (oggi abbiamo pubblicità di yogurt molto più spinte) e per il comportamento dei protagonisti, presi di continuo da qualche tipo di inibizione o comunque poco scaltri. Da un altro lato, quei filmati così poveri di mezzi erano in grado di trasmettere la tensione morbosa del voyeur: il senso claustrofobico di poter osservare scene di sesso solo da lontano e da un punto di vista unico, quello di una cinepresa fissa, un po’ a documentario e un po’ a “veduta” clandestina.
Quel materiale così frammentario potrebbe forse trovare una sua validità di documento nel quadro di una storia del costume o della sessualità nel Novecento: ma quale sarebbe invece il suo posto all’interno della storia del Cinema? Detto altrimenti, è possibile ritenere il cinema erotico e pornografico una corrente degna di un proprio statuto artistico, al pari o similmente ad altri generi come il western, l’horror, la fantascienza?



Il cinema erotico nasce di lì a poco dall’invenzione del cinematografo, e per interi decenni si mantiene un fenomeno di nicchia e scarso interesse. Solo negli anni Settanta ne vengono comprese le potenzialità commerciali, e a partire dagli Stati Uniti avviene il grande lancio del business della pornografia. Cinema e Home Video sono i principali mezzi di accesso in questa fase, fino all'avvento di Internet, immane catalizzatore che spazza via tutto il resto e lascia i Cinema a luci rosse come dei luoghi residuali, scomodi, riservati a un'utenza de-informatizzata, ormai marginale nelle dinamiche di un mercato telematico internazionale.
A Milano i cinema porno ancora attivi si contano in una decina circa. Ha una sua fama il Teatrino di via Redi, laterale di Corso Buenos Aires, mentre le altre sale risultano sparse in zone poco aristocratiche della città come via Padova e viale Monza, viale Monte Ceneri, via Giambellino, Piazza Udine e Piazza Insubria. Anche per via di uno spettacolo teatrale messo in scena l'anno scorso al Teatro dell'Elfo da Danio Manfredini, si può ricordare il nome del defunto e sventrato Cinema Cielo di viale Premuda. Un tragico evento di cronaca è infine legato al cinema Eros di viale Monza (oggi chiuso), dove il 15 maggio 1983, durante una proiezione, si sviluppò un incendio e sei persone morirono.




Quello dei cinema hard è un mondo chiuso in se stesso, ostile a chi si propone di sondarne i tratti. Massima discrezione, porte aperte a condizione di non fare domande. A rispondere al telefono solo commessi e dipendenti, una rassegna di voci sbrigative, e il gestore, il responsabile? Irreperibile, non c'è, non so quando ci sarà, non c'è mai, non richiami, non ci interessa, grazie.
Rifiutando ogni attenzione, i proprietari vogliono fugare ogni rischio. La nascita di qualche risonanza pubblica potrebbe andare a sconvolgere equilibri essenziali per la loro attività. Gli spettatori potrebbero sentirsi esposti ad uno sguardo o giudizio collettivo ed esitare a presentarsi. Fra gli abitanti del quartiere potrebbero risvegliarsi antichi malumori per la presenza di un simile vicino di casa.
Una decina di sale, dunque. Capiamo il senso di questo dato se pensiamo che il numero non è troppo diverso da quello del 1970, e se facciamo il confronto con una analoga statistica per i cinema "generici": erano 160 tre decenni fa, oggi sono solo 20. Avete mai notato che su diversi
quotidiani italiani, nel corso dell'ultimo decennio, la lista delle sale vietate ai minori è scomparsa dalla pagina degli spettacoli cittadini, dove invece campeggiava un tempo? La sopravvivenza dei Cinema a luci rosse, luoghi apparentemente fuori tempo massimo, dipende ancora una volta da questo: dalla loro capacità di fingere di non esistere, di farsi dimenticare.

Daniele Belleri

Daniele Luttazzi e la censura su La7

Può davvero una battuta su Ferrara esserne la causa? spe salvi

dall'imminente del febbraio 2008

-Le religioni sono un fatto culturale. È tutto molto relativo. Il Papa vorrebbe che tutti fossero cattolici. Le mucche vorrebbero che tutti fossero di religione indù. Qual è la verità sull'aldilà? Direi di partire da un semplice assioma: che nessuno ne sa niente. Mi piacerebbe che il Papa una domenica si affacciasse su San Pietro e dicesse: "Sapete una cosa? Nessuno ne sa niente. Siete liberi!"
*
Supponete di essere dei ladri di professione, e di stare progettando un'enorme, difficile, rapina in banca. Il colpo più importante della vostra carriera. Come vi comportereste, arrivata la vigilia di quel colpo pianificato e atteso da mesi e mesi? Probabilmente passereste l'intero giorno chiusi in casa, senza chiamare né sentire nessuno, a ripassare e rivedere ogni dettaglio dell'operazione. Di certo non uscireste in strada per fare un'altra rapina. Ebbene: sappiate che esistono ladri che alla vigilia di un grande colpo in banca vanno a rapinare fruttivendoli e mercerie, entrano con la refurtiva in Commissariato facendo pernacchie ai poliziotti, e tentano di scappare dirottando un tram, il tutto a volto scoperto. Daniele Luttazzi è uno di questi ladri.
*
- Dice: ma tu Daniele sei cattolico? Certo. Sono cattolico, apostolico, decaffeinato. [...] No, in realtà non sono cattolico. Sono cristiano monofisita: non riconosco le decisioni del concilio di Calcedonia nel V secolo. Ero cattolico, finchè un giorno Dio mi è apparso in sogno e mi ha rivelato che erano tutte stronzate.
*
Il suo Decameron è stato sospeso dalla programmazione di La7 dopo la trasmissione dell'1 dicembre scorso. Ragione ufficiale: una battuta in cui Luttazzi figurava Giuliano Ferrara nudo e dedito a pratiche di coprofilia con Cesare Previti. Ragione reale: l'argomento della puntata successiva sarebbe stato l'ingerenza della Chiesa nella politica italiana, a partire dall'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI. Il solito tabù vaticano? Sì, e quello che allarma è l'evidenza che neanche La7 possa sfuggirne: che debba allinearsi al tradizionale comportamento di Rai e Mediaset. Il monologo di Luttazzi, facile da trovare in Internet, dice parole sulla Chiesa e sulle religioni che nella Tv italiana nessuno ha mai detto e che, evidentemente, non si possono ancora dire. Lo stile del monologo è cinico e caustico, come solito di Luttazzi, ma non si trova nulla che si possa avvicinare al tono greve della battuta su Ferrara. Certo una volta viene detto "cagare". Ma prima c'è una triplice argomentazione sullo status ontologico degli embrioni. Come a dire che la contesa è sulla sostanza: una censura su della cacca non è credibile.

- Nel tempo, le funzioni mitiche svolte dalle religioni e dalle monarchie non spariscono: oggi vengono assolte dai mezzi di comunicazione di massa e dal potere simbolico dei segni-merce, nuovi mondi-di-sogno. La pubblicità come teologia della lavatrice. Provate adesso a immaginare qualcuno che pretenda di vendervi una lavatrice alla condizione che, se non la comprate, brucerete all'inferno. Lo mandereste a cagare. Ma no, lui pretende anche di essere rispettato, perché non è solo una lavatrice, è una religione!

Luttazzi non immaginava le reazioni che avrebbe suscitato la sua intenzione di preparare una messa in onda sul Papa? Sì, immaginava tutto, e ci scherza su nei primi minuti della prima puntata di Decameron (cercate "luttazzi profeta" su YouTube). Perché allora, considerato il rischio, non ha fatto una valutazione delle priorità, costruito una gerarchia dei suoi obbiettivi? Come già detto: nessuno in Tv dice certe cose sulla Chiesa, mentre sull'obesità di Ferrara già Benigni costruiva interi spettacoli a metà anni Novanta. Tenere un basso profilo nella puntata precedente a quella sull'enciclica, così da non dare alla dirigenza di La7 la possibilità di trovare qualche pretesto censorio, non sarebbe stato un sacrificio troppo grave. In compenso avrebbe forse permesso di salvare il programma, così da permettere, sette giorni dopo, di fare della satira davvero pregnante.

- E questo è il quiz della settimana: quali fra questi intellettuali non è citato da Papa Ratzi nell'ultima enciclica? Sant'Agostino. Kant. Adorno. De Sade. E la risposta è: De Sade. La Spe salvi, sorpresa! è una dura condanna della modernità. Il giorno che venne eletto, dissi in teatro: "Hanno eletto il nuovo papa. È il cardinal Ratzinger. Subito condannato di nuovo Galileo". Non mi sbagliavo. Dopo un mese Ratzi disse: "La risposta alla modernità è Cristo". Io ho 46 anni, nella mia vita ho imparato una cosa: se la risposta è Cristo, la domanda è sbagliata.

Ora Luttazzi si lamenta, e ha ragione, ma passi anche la nostra di offesa. Perché non è concesso, a un personaggio la cui satira si basa spesso e volentieri proprio sulla dissimulazione (fintamente ingenua) di contenuti scorretti, di comportarsi poi da anima bella. Non è di colti uomini pubblici con vocazioni al martirio che abbiamo bisogno.

Daniele Belleri

Cesare Pavese e Natalia Ginzburg - Essere diversi senza essere contro

Il Giusto Volume


Il 18 dicembre, per la prima volta nell'hinterland questo inverno, c'è stata una gelata mattutina come si dovrebbe: alla stazione di *** i pendolari sono pochi e pacifici, la luce è apertissima e i binari ancora all'ombra sono coperti di brina. Da quest'ultimo dettaglio nasce - irrazionalmente e senza pretese romanzate - l'idea di mettere insieme Cesare Pavese e Natalia Ginzburg per questa rubrica.
Certo accostarli non è un'operazione originale, visto che si conoscono bene, qualcuno azzarda 'migliori amici', sicuramente compagni in un gruppo di persone "che avevano sempre lavorato e pensato insieme". Allora, più che degli amici, qui si vuole parlare degli analoghi e dei complementari.
Le considerazioni contenute in queste righe sono riferite soprattutto a due opere: la raccolta di poesie Lavorare stanca di Pavese, e Le piccole virtù della Ginzburg, raccolta di racconti e saggi brevi. Chi mai fosse ricettivo ad un consiglio - consiglio davvero sentito, per quanto possibile - su letture prossime venture, l'ha ricevuto.
Cesare Pavese e Natalia Ginzburg rappresentano il giusto volume - volume sonoro e spaziale. Il primo coinciderebbe con lo stile e la misura, il secondo con gli argomenti e i contenuti, ma naturalmente i piani si intrecciano spesso.
Nella correttezza del volume sonoro sta, più che la capacità di non dover urlare, quella di non dover usare il sottovoce allo stesso scopo. Non abusare della semplicità come cultura d'accatto delle piccole cose o, per dirla con le parole dello stesso Pavese: "quel linguaggio (…) allusivo, che troppo gratuitamente posa a essenziale". Nella Ginzburg l'innocenza stilistica non coincide certo con l'ingenuità, ma nemmeno è stretta tra i denti come il proverbiale coltello, o a mo di martello, per fare e farsi il verso. Per rendere la cosa più piccante: il livello di onestà intellettuale, a livello strettamente stilistico, è forse superiore ad alcuni considerati must dell'autenticità di oggi - dal mucchio, Alessandro Baricco ed Erri De Luca.


Dalla forma si passa al contenuto: "ora, io non nego che nella mia raccolta di questi concetti se ne possono scoprire (…) nego soltanto di averceli messi", scrive Pavese nella postfazione di Lavorare stanca. E' molto curiosa la contiguità tra questa affermazione e una definizione che è stata data della Ginzburg, anche con una punta di risentimento: "è difficile notare una finta tonta più finta di Natalia Ginzburg. La sua prima preoccupazione è di ostentare la sua ottusità". I finti tonti raccontando dicono, sempre in modo estremamente sottile, sul filo: il gusto per la verità, di cui si dirà meglio alla fine, a tratti fa perdere corpo a tutto il resto.
I temi sono 'scarni', e anche le situazioni e i luoghi su cui insistono entrambi con la loro ricerca lo sono, ma come per la forma, povertà e semplicità sono proposte in silenzio, non brandite con forza. Scrive la Ginzburg che grazie a Pavese "(…) scoprimmo, con profondo stupore, che anche della nostra grigia, pesante e impoetica città (Torino, ndr) si poteva fare poesia": ma in questa affermazione non sembra esserci l'autocompatimento, visto troppo spesso, della mente eccelsa che si vanta di fare arte nonostante la valle di lacrime in cui vive, o l'autoglorificazione dell'artista che riesce a vedere il bello perfino laddove parrebbe impossibile. C'è piuttosto un onesto senso di fatalità, spesso così forte da essere motivo di rimbrotti per Natalia da parte di Pavese stesso: "(…) essa prende per granted, con una spontaneità anch'essa granted, troppe cose della natura e della vita". Affermazione coerente, col senno di poi addirittura scontata, se si considera il destino tragico di Pavese, morto suicida il 27 agosto 1950.
Quasi sempre le caratteristiche citate per l'uno valgono anche per l'altra. In entrambi stupisce l'equilibrio: rifiutare un eccesso senza tuttavia approdare a quello opposto, che si declina nella santa capacità di essere diversi senza essere contro, nel talento di imporsi come artigiani - prima Pavese e poi la Ginzburg, non a caso, avranno l'occasione di titolare come 'mestiere' la propria ricerca - evitando comunque il narcisismo (Il mestiere del poeta, titolo della postfazione a Lavorare stanca e Il mio mestiere, saggio incluso in Le piccole virtù).
"Non fu per noi un maestro, pur avendoci insegnato tante cose" - dice la Ginzburg di Pavese. Involontariamente, forse, ha definito un grande titolo di merito, che starebbe bene anche riferito a lei stessa.
In fondo, tutto si riduce al vero: "Dire la verità. L'artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo. Le parole non sono che uno strumento per costruire ai personaggi un mondo artistico uguale al mondo immaginario da cui egli li ha tolti (…) i personaggi quali sono, e non quali vorrebbe che fossero. Se no i personaggi sono falsi, il mondo costruito è falso. Generalmente questo accade a chi non possiede una sua verità, e si diverte a cucinare parole. Ma può accadere anche a chi non è sufficientemente convinto della propria verità (…) dire la verità. Solo così nasce l'opera d'arte". Chi l'avrà detto tra i due? Comunque sia, non è una morale.



Giacomo Giudici

Acme Comics Novelty Library



"E' arrivata quella roba che avevi ordinato dall'America". E poi ho pagato i miei 28 sconcertati euro per l'Acme Comics Novelty Library di Chris Ware - neppure ricordavo di che si trattasse, ma una sola occhiata alla fascetta ed alle minuscole vignette che punteggiano la costa d'un rosso arabescato mi aveva già venduto il prodotto.
Non siamo di fronte ad una graphic novel. Per dire che non c'è una storia che comincia a pagina uno e finisce a pagina trecento. Al suo posto, ci sono gli aloni lasciati dalle nostre vite, come in una storia del mondo diretta da un regista della Nouvelle Vague. E che deborda macchiandoci i pantaloni.
L'arte di Chris Ware, grafico e fumettista scoperto dall'Art Spiegelman di MAUS, ha uno sguardo malinconico che si perde nel vuoto e va oltre la forma-fumetto: dalla genesi al molle popolo delle convention, in un ponte tra passato e presente, storia e fantascienza, ogni striscia è un appartamento vuoto, una sbornia solitaria. Un'insostenibile poetica del fallimento in toni pastello. Lo stile grafico è gelido, e stride con la malinconia dei personaggi che descrive, intervallando le loro storie di un'umanità dolorosa con detriti della nostra cultura, un accumulo ipertrofico di spazzatura dalla quale emerge chiarissima un'idea: che non è parodia del mondo contemporaneo, e neppure una moralità leziosa; è il chiedersi il perché di tanto dolore, ed il non trovare risposta.
Non è un fumetto facile: può commuovere e scuotere e cambiare, o può lasciare indifferenti. Quanto è certo è che qui dentro c'è disegnata l'unica storia del mondo di cui potreste avere bisogno.
Mentre decidete, fatevi un giro su www.pfbcomics.com: un altro costruttore di realtà che ha più di un tratto in comune con il nostro autore.

Alberto Ricca

Charles Bukowski: da caro estinto a caro-e-stinto

Scandali addomesticati



Attenzione alle date: Charles Bukowski è nato nel 1920, ha esordito alla fine degli anni Sessanta e concluso carriera e vita nel 1994, con il bestseller Pulp, dopo più di cento pubblicazioni tra prosa lunga e breve e poesia. Storie di ordinaria follia, Compagno di sbronze, Hollwood! Hollywood! Musica per organi caldi: romanzi e raccolte noti, di fatto, anche a chi non ha mai avuto occasione di leggerlo. Charles Bukowski, con la sua America di romanzieri incompiuti, superalcolici, gallinelle, cadaveri nel freezer e cazzi morsi ha incantato e scandalizzato i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori, i nostri zii, in qualche caso probabilmente persino i nostri genitori. E molti di noi.



Edouard Manet presentò Colazione sull'erba al cruciale Salon des Refusés del 1863: anche qui lo scandalo fu grande, le cronache raccontano del pubblico e della critica inorriditi da quei nudi femminili in libertà, da quel cromatismo mai visto, da quella composizione classica stuprata nel contesto moderno. La storia dell'accoglienza di Colazione sull'erba è arcinota perché ci sembra estremamente assurda: nel giro di pochi decenni il quadro perderà la propria carica provocatoria, l'anticonformismo di quella rappresentazione della modernità verrà assorbito e metabolizzato, fino a farci percepire il dipinto come perfettamente innocuo, quasi di maniera.
Bukowski e Manet, con le debite proporzioni, fanno lo stesso: spaccano un vetro e fanno storcere molti nasi. Non precorrono il proprio tempo, come saremmo tentati di dire sbagliando, ma lo compiono, facendo fare un grande balzo in avanti al pubblico, vincendo la sua resistenza iniziale. Manet, in seguito, fatalmente si immola, come succede ai grandi: viene digerito, superato, ma la sua lezione rimane sempre sottotraccia. Bukowski invece, ad 88 anni dalla sua nascita, a 50 anni dai suoi esordi, a 14 anni dalla sua ultima opera e dalla sua morte, sta sulla maglietta di una buona fetta della nostra gioventù: immutato e mortificato.
Mortificato in senso letterale: reso morto, pietrificato, da chi lo venera e lo brandisce a mò di martello per sventolare il proprio stile, da chi lo accetta in maniera acritica come il non plus ultra del postmoderno, l'insuperato e l'insuperabile. E' la letteratura contemporaneissima e attualissima per certi salotti un po' truci - le colonne e il Mom, per semplificare - come il francese con basco e baguette (sotto l'ascella) è l'autentico francese per l'americano porcino proveniente da Yale. Da caro estinto a caro-e-stinto: Bukowski è rimasto sullo stomaco di chi lo salmodia, tanto da sentirsi il bisogno che cominci a stare sulle palle a qualcuno. Sembra l'unico modo per sorpassarlo. L'anticonformista per antonomasia è diventato un dogma di immaginario della realtà e di comportamento, ovvero il conformismo. Suo malgrado, si direbbe, anche se ascoltandolo (cercare cigarettes session su youtube) viene da pensare che il maestro - perché di un maestro parliamo - forse in ultima sulla propria persona diventata personaggio abbia fatto un po' autoerotismo.
Parlando di Bukowski non si può evitare di indossare, in appendice, un'altra maglietta molto simile e forse ancora più diffusa: Fear and loathing in Las Vegas, Paura e disgusto a Las Vegas, in Italia conosciuto come Paura e delirio a Las Vegas considerato il solito vizio di cambiare in peggio i titoli. Un vero culto, ultraidolatrato e ancora più accessibile perché cinematografico e perché interpretato da due autentici mammasantissima, Johnny Depp e Benicio del Toro. Forse non proprio tutti coloro che molto sensualmente ritengono sia già pronto per i licei e le tesi universitarie sanno che non si tratta originariamente di un film (1998) ma di un libro (in Italia - 1996) tratto a sua volta da un reportage, di un viaggio realmente avvenuto, pubblicato su Rolling Stone nel millenovecentosettantuno, ovvero 37 anni fa.
Sette anni in più di quelli che distanziano Colazione sull'erba da Il grido di Munch. Come dire che forse bisogna distogliere lo sguardo da nonni e padri impagliati, levarsi le loro magliette e cercare di rifarsi la bocca.



Giacomo Giudici

High Fidelity - Compilation: istruzioni per l'uso

Ci salverà il pop


"Quello avrà dieci dischi al massimo"."E questo fa di lui un mostro, vero?""A mio modo di vedere, sì. Barry, Dick e io abbiamo deciso che non puoi essere una persona seria se hai meno di cinquecento LP"Così Rob e i suoi due dipendenti (Barry e Dick) passano le loro giornate al Championship Vinyl: stilando classifiche di tutto, insultando clienti venuti a comprare musica commerciale, crogiolandosi vaghe aspirazioni di grandezza (essere i leader di una band, mettersi con una cantante che ti citi nei testi delle sue canzoni…). Insomma, declinando in cento modi lo snobismo accidioso di quelli che "ne sanno".Ora, anche se l'obiettivo di chi scrive è arrivare a recensire la colonna sonora del film, facciamo una piccola digressione: se leggete queste pagine è probabile che vi sentiate di appartenere, se non ad un'èlite-culturale, quanto meno al gruppo di quelli che "si interessano", così come chi scrive e come Rob Gordon. La vita di Rob (e ne sono sicuro, almeno in parte, anche la mia e le vostre) s'impernia su sogni coscienziosamente scelti in quanto irrealizzabili, sulle piccole gioie di fruitore artistico e sulle grandi delusioni in tutto il resto. Per nostra fortuna ci sono, però, due forze trainanti. La prima sono le donne (il film è al maschile) che, da una parte, danno una struttura alla pellicola organizzandola in una grande top 5 di delusioni amorose, dall'altro sono il tramite per il lieto fine. La seconda forza, ed eccoci arrivati, è la musica pop. Importante: non è rock, non è jazz. È pop. Canzone d'autore vecchio stile, con i testi meno impegnati di sempre e sonorità immediatamente piacevoli; e in proposito,un grande critico ha snocciolato la verità più scomoda di tutte per noi "che ne sappiamo": il pop è la colonna sonora perfetta per la vita di chiunque. E purtroppo non ci sono repliche: provate a far calzare le 5 tracce di Kind of Blue alla vostra vita e poi rifate lo stesso esperimento con Sevie Wonder, i Love, i Velvet Underground (tutti protagonisti della O.S.T in questione)...la "crudele" realtà è che sulla maggior parte dei ring Elvis Costello mette al tappeto John Coltrane, perché su quelle note si fantasticano serenate, con quelle note si raggiunge la piccola notorietà di un pub affollato, da quelle note i balli, i baci... Così la colonna sonora di Altà Fedeltà, 15 tracce scelte da Kusack stesso tra il centinaio abbondante che è citato nel film, è pressoché perfetta. Nel finale del film Rob smanetta con un registratore e dice:"una grande compilation, così come una separazione, richiede più fatica di quanto sembri. Devi iniziare alla grande, devi catturare l'attenzione. Allo stesso livello metti il secondo brano. Poi devi risparmiare cartucce [..] eeeeh, sono tante le regole!".E a quanto pare sono state seguite tutte. Dispiace solo che non si usino più le audiocassette.


Giacomo Bisanti

Una Giornata per la Democrazia

L'imminente appoggia e promuove la manifestazione organizzata dalla rivista MicroMega







Roma, 8 luglio, manifestazione in piazza Navona. Passaparola!
Colombo, Pardi, Flores d’Arcais: tutti in piazza contro le leggi-canaglia

Care concittadine e cari concittadini,il governo Berlusconi sta facendo approvare una raffica di leggi-canaglia con cui distruggere il giornalismo, il diritto di cronaca e l’architrave della convivenza civile, la legge uguale per tutti.
Questo attacco senza precedenti ai principi della Costituzione impone a ogni democratico il dovere di scendere in piazza subito, prima che il vulnus alle istituzioni repubblicane diventi irreversibile.Poiché il maggior partito di opposizione ancora non ha ottemperato al mandato degli elettori, tocca a noi cittadini auto-organizzarci.
Contro le leggi-canaglia, in difesa del libero giornalismo e della legge eguale per tutti, ci diamo appuntamento a Roma l’8 luglio in piazza Navona alle 18, per testimoniare con la nostra opposizione – morale, prima ancora che politica – la nostra fedeltà alla Costituzione repubblicana nata dai valori della Resistenza antifascista.
Vi chiediamo l’impegno a “farvi leader”, a mobilitare fin da oggi, con mail, telefonate, blog, tutti i democratici. La televisione di regime, ormai unificata e asservita, opererà la censura del silenzio.
I mass-media di questa manifestazione siete solo voi.

On Furio Colombo
Sen. Francesco Pardi
Paolo Flores D’Arcais

per info:

CONTRO LE LEGGI-CANAGLIA

ADERISCI ALLA MANIFESTAZIONE

AGGIONAMENTI QUOTIDIANI SULLA MANIFESTAZIONE

L’esperienza ventennale dello Studio Azzurro

dall'imminente del giungno 2007

Sperimentazioni video e impegno concettuale



L’area della Fabbrica del vapore, situata tra via Procaccini e il piazzale del Cimitero Monumentale, è comunemente considerata una Grande Incompiuta. Grande spazio, grandi possibilità, ma pochi progetti e continue proposte di riqualificazione soddisfatte ad intermittenza - una situazione abbastanza comune a Milano.
Tutto vero, probabilmente: ma spesso la tendenza all’autocommiserazione facile fa perdere di vista quanto di buono c’è già e andrebbe tenuto da conto. Studio Azzurro è una di queste realtà, e fin dalla metà degli anni 90 – in tempi non sospetti - ha voluto esprimere con forza la necessità, per una città come Milano, di un centro di creatività e scambio culturale aperto soprattutto ai giovani. Coerentemente con questo atteggiamento, nel dicembre del 2004 ha trasferito gli uffici all’interno della Fabbrica del Vapore, contribuendo in maniera decisiva al progetto di riqualificazione avallato dallo stesso Comune. Più che un punto di arrivo, la nuova sistemazione vorrebbe essere un primo segnale da inserire in un quadro più ampio di iniziative che vorrebbero coinvolgere la città – corsi a tema, workshop, seminari – per migliorarla a livello urbano e sociale – le iniziative sono rivolte soprattutto ai giovani – e contribuire a rendere Milano più appetibile a livello europeo.


Cos’è Studio Azzurro? Secondo gli stessi fondatori è uno studio di ricerca artistica che basa la sua espressione su linguaggi tratti da tecnologie all’avanguardia, presente e attivo dal 1982. Qualcosa di eclettico e piacevolmente aperto fin dall’inizio, essendo nato dall’idea di tre professionisti già impegnati con successo in forme d’arte diverse: Fabio Cirifino (fotografia), Leonardo Sangiorgi (grafica e animazioni) e Paolo Rosa (cinema ed arti visive), tutti classe ’49, ai quali si è aggiunto nel 1995 Stefano Riveda, esperto in sistemi interattivi.
L’obiettivo del progetto è l’esplorazione dei potenziali poetici ed espressivi delle tecnologie e dei sistemi che hanno cambiato la vita di ciascuno negli ultimi anni, entrando nell’uso e nella mentalità comune. Una esplorazione viva e lunga ormai 25 anni, che ha fatto di Studio Azzurro un nome noto ben oltre i confini di Milano e dell’Italia – un’esperienza modulata in una serie sorprendente di scelte e lavori: dal teatro alle installazioni video, dalla progettazione di ambienti museali al cinema: dal 1981 ad oggi sei produzioni, tra corti e lungometraggi, l’ultimo è Il mnemonista (2000) con – tra gli altri – Sandro Lombardi, Sergio Rubini e Sonia Bergamasco, che il Morandini 2007 ha definito “troppo eccentrico rispetto al panorama del cinema italiano per essere capito e valutato come meritava”.
Lavori sperimentali, ma non fini a se stessi: accanto al valore artistico assoluto, và sottolineato l’importante impegno concettuale, culturale e sociale – in senso non poi così lato – di chi si spende per creare ambienti interattivi e comunicativi che coinvolgano la persona con un significato. Nelle performances teatrali, lo spettatore diventa parte integrante e attiva della struttura narrativa, “istigato” alla partecipazione da elementi reali e virtuali – il visitatore del museo (tra gli altri: il Museo della Resistenza delle province di Massa Carrara e La Spezia, il Museo dell’Industria e del lavoro di Sesto San Giovanni) viene inserito in un ambiente sviluppato appositamente per avvicinarlo, anche in modo intuitivo, a determinati contenuti.
Per chi fosse interessato ad approfondire le attività di Studio Azzurro è attivo l’ottimo sito ufficiale (http://www.studioazzurro.it/) e segnaliamo la recente uscita per Feltrinelli del dvd “Studio Azzurro – videoambienti, ambienti sensibili” che ne ripropone la storia attraverso una sessantina di lavori.Giacomo Giudici