Dolcina e Dolcissima - teatro agricolo

Un'altra storia di resistenza



È necessario avere una buona dose di coraggio, e forse incoscienza – come fa notare Giovanni Balzaretti, introducendo lo spettacolo alle poche decine di spettatori del Cicco Simonetta –, per rendersi disponibili a fare teatro nei luoghi che deputati al teatro non sono. Quello della Compagnia Teatro Agricolo è un viscerale amore per ogni forma di teatro, anche la più minuta, minuta come il popolo a cui predicano gli eretici Frà Dolcino da Novara e Margherita da Trento, protagonisti di “Dolcino e Dolcissima”. Lo spettacolo, basato sulla storia vera di uno dei più interessanti movimenti ereticali cristologici medievali, ha debuttato nel maggio del 2007 e ricevuto il Patrocinio del Centro Studi Dolciniani Italiano.
Il coraggio del rivoluzionario messaggio di Frà Dolcino e Margherita – una novella di uguaglianza fra uomo e donna, del diritto di ogni contadino di pregare a modo suo, col suo linguaggio, di una croce di legno e fango – si coniuga con quell’incoscienza di chi vuole credere che una società, anche la più disgraziata, possa essere cambiata.
Il linguaggio scenico di questo teatro agricolo gioca tutto sul peso delle parole, di semplici gesti, dell’intensità degli sguardi, facendo virtù delle necessità. Se i mezzi sono ridotti al minimo – una scena spoglia, due scranni-tronchi d’albero che si improvvisano sgabelli e pulpiti, dei semplici costumi da frate – è anche perché non si potrebbe immaginare diversamente uno spettacolo che prende le mosse dalla vicenda di Francesco d’Assisi e Gherardino Segalello, per occuparsi del movimento dolciniano, diffusosi a cavallo del XIV secolo.
Isabella Macchi e Giovanni Balzaretti alternano così parti narrate, con dovizia di dettagli, a recitati in dialetto valsesiano; e se il narrato risulta un poco didascalico, al contrario, quando i due attori indossano i panni dei protagonisti della vicenda dimostrano una notevole padronanza della lingua e delle tecniche teatrali dell’epoca, combinata ad una capacità interpretativa di forte carica suggestiva.
Siamo dinanzi a quel teatro che, in un certo qual modo, si preoccupa di restituire dignità al Medioevo – e nello specifico ai popolani medievali –, periodo storico che Teatro non aveva, secondo un lavoro di ricerca e messinscena non dissimile dal “Mistero Buffo” di Fo e Rame. E non è un caso che la celebre “giullarata” di Bonifacio XIII parlasse proprio di Dolcino.
Seguendo il percorso inverso rispetto alla scelta narrativa di “Dolcino e Dolcissima”, cogliamo ora le ragioni storiche per le quali l’azione di questa coppia di eretici fu così importante e rivoluzionaria. I mezzi di propaganda della Chiesa di allora erano immensi, basta pensare agli squadroni di “predicatori apocalittici” che, a ridosso dell’anno Mille, avevano convinto tutta Europa dell’imminente fine del mondo, in quello che è considerabile a tutti gli effetti un atto terroristico. Al confronto con questa potenza mediatica della Chiesa, il lento e costante operare di Dolcino e Margherita – forti dell’insegnamento del giubilate francescano – costituiva una controtendenza che sapeva modificare le coscienze dal profondo dell’animo.
Il Vescovo di Vercelli reagì come ci si poteva aspettare da un alto prelato della Chiesa di allora: dapprima scomunicando l’intera comunità comunarda, e proto-socialista, della Valsesia, e in secondo luogo, con l’obiettivo di eliminare fisicamente tutti i dolciniani, assoldando balestrieri mercenari cui era concesso il consueto diritto di saccheggio e stupro.




Marco Turconi






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