Se non ci fosse Blob?

Ovvero l'epoca della sovraesposizione mediatica

dall'imminente del febbraio 2008



Giorni fa mi sono accorto che sulla maglietta che indossavo era stampata una vignetta in cui due personaggi si scambiavano queste battute: "La TV è uno schifo…" "Hai ragione, se non fosse per Blob su Rai 3 non l'accenderei neanche!".
Blob nasce il 17 aprile 1989, da un'idea di Enrico Ghezzi e Marco Giusti: si tratta di voler fare un programma satirico di 15/20 minuti che proponga uno studiato montaggio di spezzoni audio e video, tratti dalla programmazione della Televisione italiana. Quello che mi domando e se per caso oggi Blob non abbia perso la forza sfrontata che lo contraddistingueva un tempo. La chiave di volta del programma è l'effetto Kuleshov: un risultato visivo ottenuto accostando una dopo l'altra due immagini, con l'obiettivo di suggerirne una terza nello spettatore. In questo modo il messaggio proposto resta fuori dal piano esplicito lasciando al fruitore la libertà interpretativa: la conseguenza è uno shock a posteriori nella sua mente. È fondamentale quindi mantenere un certo distacco fra le immagini e l'intenzione che sta dietro la decisione di accostarle fra loro.
Torno col pensiero alla maglietta: perché mi figuro Blob come il logo indossato dall'italiano medio mediamente insoddisfatto della TV? Forse perché Rai 3 è assurta a roccaforte della cultura catodica sinistrorsa? Forse perché nello zapping capita di incontrare personaggi che, dopo un'uscita infelice, esclamino scherzando "Dannazione, finirò su Blob per una settimana!" indebolendo la vis polemica del programma?



Stiamo finendo per prevedere quello che Blob manderà in onda, intuiamo che il mood del ghezzismo si è uniformato al linguaggio televisivo odierno. Abbiamo imparato a parlare di questo programma, come fosse un'istituzione di tutti e nessuno, che in una propensione destrutturante bipartisan ci ha abituati al capovolgimento delle affermazioni, delle posizioni, dei valori. Nell'epoca della sovraesposizione mediatica abbiamo assistito e concorso alla sovraesposizione di Blob e ci siamo assuefatti al riconoscergli una ragione critica, senza più sondarla, senza più sorprenderci o - pacificamente seduti in poltrona - indignarci.
Nel 1993 usciva per RAI-ERI Il libro di Blob di Enrico Ghezzi e Marco Giusti, che a soli quattro anni dalla sua nascita dimostrava un'attitudine ad affermarsi come importante chiave di lettura della società italiana. Dal 2007 Blob è maggiorenne ed è inevitabile fare un confronto coi vent'anni di Striscia la notizia di Antonio Ricci. Il telegiornale satirico di Canale 5 - macchiettistico e altalenante tra servizi di carattere sociale e gag di facile comicità - è di tutt'altra natura e caratura culturale ma suggerisce una riflessione su quello che possiamo considerare il vizio di Blob. Il programma di Ghezzi non finisce forse per fare parte della TV che esso stesso denuncia e venir digerito dalla becera logica del pubblico televisivo? Viene guardato perché si ricerca voyeuristicamente ciò che Blob spiattella in video. Pensiamo per esempio alla "rubrica" Area Pro-Tetta, in cui la geniale idea di incastonare in 10 minuti solamente immagini di seni nudi ha però - alla lunga e con l'iterarsi periodico - incentivato l'accettazione di quel canone estetico, omologato al palinsesto. Blob segue questa linea in maniera ingenua o è consapevole che certe visioni possano piacere a chi ama il piattume catodico? Striscia la notizia cerca consenso e share proprio in questo modo, ottenendo sia l’uno che l’altro con successo e senza pretese intelettuali che lo rendano vulnerabile a critiche vezzose e finto-colte.
Sappiamo però che il programma di Rai 3 non è un prodotto preconfezionato e, al contrario, la sua ricetta è molto simile ad un piatto che ci viene riproposto, ma cucinato in tutt'altro modo. Gli spezzoni audio e video che si susseguono vengono portati a nuova vita, spesso demoliti, talvolta nobilitati. Credo che l'attitudine satirica di Blob - pur considerando gli effetti collaterali valutati - non sia cambiata negli anni, come non sono cambiate l'impertinenza e l'anarchica ironia. Ciò che è mutato sono il nostro modo e la nostra capacità di leggerlo, che rendono sempre più vicino il momento in cui finirà sulla fatidica maglietta.
L'augurio che possiamo fare a Blob è di non nascondersi dietro l'apologia dello zapping che ne fonda la ragion d'essere, mentre quello rivolto a noi spettatori è di riuscire ancora a cogliere la straordinaria semplicità evocativa dell'effetto Kuleshov, per non rischiare di presumere in anticipo cosa ci verrà proposto alle 20.10.



Marco Turconi

Intervista a Maurizio Nichetti

dall'imminente del gennaio 2007

Al cinema solo banalità


a cura di Antonino Valvo

Lei ha iniziato la sua carriera cinematografica con Ratataplan, un film muto e stravagante. È un film di questo tipo che servirebbe oggi?
Io credo che è sempre tempo di film belli che interpretano la loro epoca, e Ratataplan era uno di questi. Oggi ha 25 anni: non è rappresentativo del mondo contemporaneo. Oggi voi avete la Notte prima degli esami e Muccino, che vi possa piacere o meno è il tipo di cinema emerso da questi anni: la gioventù rappresentata nei suoi momenti più superficiali. Certo, alla fine degli anni 70 la società viveva un momento culturalmente più ideologico rispetto ad oggi. Adesso il fermento politico ha il sapore di un teatrino televisivo dove i personaggi diventano famosi perché aggrediscono l'avversario. Questo non può avvicinare una generazione giovane a degli ideali. E questa assenza di ideali ha toccato anche il cinema che è diventato accondiscendente verso il ritratto generazionale. Noi rappresentavamo l'alternativa, l'eccentrico. Io non mettevo in scena giovani normali, ma quelli che facevano teatro, che volevano fare le comuni e vivere fuori dagli schemi. Oggi invece tutto questo viene un po' tralasciato: ci saranno sicuramente delle eccentricità e delle realtà particolari, ma sullo schermo arriva solo il banale. Adesso l'originalità coincide con il successo di mercato (e anche la sperimentazione) solo nel cartone animato, è questo il caso di Shrek.

Perché non riusciamo a rappresentare l'eccentricità?
La crisi del cinema nasce dal fatto che non ha un mercato, non è un'industria ed è finanziata solo dalla televisione, la quale fa passare soltanto progetti che possono andare in prima serata. Il che priva il cinema della sua funzione primaria: quella di non essere televisione. Quando feci Ratataplan avevo trovato un produttore, Cristaldi, ma se oggi fossi un giovane che vuole fare un film come quello, lo farei con i miei soldi, con le mie telecamere, a bassissimo costo. Ma certo partendo così dal basso diventa difficile arrivare alle sale e raggiungere un successo di mercato, nel senso nobile di un'opera in grado di distinguersi per il suo valore rispetto alle altre offerte. Oggi l'offerta consiste solo in un prodotto commerciale spesso prevenduto alla tv che dà al pubblico ciò che vuole.






Come è cambiata la televisone dai tempi di Ladri di Saponette o Ho fatto Splash ad oggi?
Io appartengo a una generazione che aveva uno o due canali al massimo, che quindi erano molto selettivi; inoltre era possibile rimanere nell'immaginario delle persone per tanto tempo anche con una trasmissione una volta alla settimana. Oggi esistono mille canali che trasmettono a tutte le ore. Oggi diventa popolare il personaggio che fa più ore di trasmissione, non quello che le fa meglio, ma colui che riesce a stancare meno il pubblico. Lo spettatore poi può accedere a canali d'informazione audiovisiva talmente diversificati, internet, satelliti, canali tematici, che immagino siano anni che un giovane della vostra età non guardi i canali generalisti. Sembra quasi, se vogliamo essere cattivi, che qualcuno abbia fatto di tutto per fare diventare la televisione generalista poco interessante per invogliare lo spettatore ad acquistare tv satellitari e paytv.

E la pubblicità?
La pubblicità ha contaminato tutta la produzione audiovisiva, soprattutto per quanto riguarda il ritmo. In qualsiasi tipo di programma, non necessariamente brutto, tutto è molto breve, veloce, come tanti spot messi insieme dove niente è così importante da durare 10 minuti, ma tutto deve riuscire a colpire in 30 secondi. Ed è la pubblicità stessa ad esserne stata danneggiata: se quella velocità diventa una caratteristica dei programmi, quando parte la pubblicità non è più quell'esplosione di ritmo che era una volta.

Quindi si può dire che la pubblicità abbia contaminato la televisione e la televisione il cinema. È cambiato anche il ritmo del cinema?
I film con tanti effetti speciali hanno sempre avuto un ritmo frenetico. Era il cinema d'autore italiano ed europeo ad avere dei ritmi lenti. Solo durante i festival si possono trovare tracce di questo cinema, ma tanto più un film è lento e vince ai festival meno si vedrà nelle sale. Questa è un equazione matematica. Questo tipo di i film non rappresentano più il cinema, ma sono solo esempi di come si lavorava 40 anni fa.

Che consigli darebbe a chi vuole iniziare?
Bisogna adeguarsi al proprio tempo, con un linguaggio e un modo di muovere la telecamera (che non è più la cinepresa) adatto all'occhio contemporaneo. Si deve provare a far qualcosa di nuovo che dall'Italia possa interessare anche l'estero. Il problema è che preoccupandosi di piacere a un pubblico internazionale si rischia di appiattire molto l'originalità. Muccino con La Ricerca della Felicità ha fatto un film americano che scopiazza Ladri di Biciclette, La vita è bella e tutti i film coi bambini. Alla fine ha fatto 140 milioni di incasso per cui non puoi parlarne male, però non è di nessuno interesse, è solo l'ennesimo ricatto morale. Ormai o ti metti lì a costruire qualcosa di gigantesco e costoso o lavori sul piccolissimo: tu i tuoi amici e una telecamerina, e vedi di mettere insieme un cortometraggio e se poi la cosa è bella qualcuno l'andrà a vedere.




Il cinema italiano…
Oggi non esiste un vero cinema italiano. Trent'anni fa la situazione era diversa: c'erano i film di Natale che incassavano sempre molto, ma venivano prodotti anche altri 150 film che uscivano in un anno per accontentare tutti i gusti. In America invece la situazione è rimasta stabile: sfruttano il grande ricambio generazionale per restare aggiornati sul mercato. Da noi invece finché non muoiono lavorano, Mastroianni se non moriva lavorava ancora. Questo con tutto il rispetto per i grandi maestri, non è un sintomo di abilità. Lo dico contro il mio interesse perché se ci fosse una generazione di ventenni che riesce a fare cose che io non so fare o non capisco, mi metterei da parte e andrei in pensione. Ma mi sembra che i film che escono adesso sono ancora più vecchi di Ratataplan. Si è fermato un sistema. Possibile che oggi nessuno faccia più film originali? Non credo, ma in sala passano solo quelli che hanno sovvenzioni statali, amministrative e soprattutto televisive, il che implica poi una certa qualità del prodotto.

Il mezzo digitale.
Ha modificato completamente i rapporti tra autore, prodotto e pubblico. Tutto è più facile, più democratico e accessibile, ma anche più complesso se pensi di dover distinguerti tra una marea di prodotti di questo genere. Poi c'è anche una certa tendenza a snobbare il digitale: la postproduzione di Honolulu Baby era tutta in digitale e questo ha scatenato i timori di molti perché tutti volevano difendere i vecchi mestieri, ora però sono tutti disoccupati. Non c'è qualcosa da rimpiangere. Sono le tecnologie che vanno avanti. Il fatto è che ad ogni sviluppo tecnologico corrisponde una moria di vecchie professioni da un lato e la nascita di nuove dall'altro. Questa non è una perdita culturale, è un fatto normale.



Per lavorare a Milano lei si è dovuto comunque relazionarsi a Roma?
Il mondo del cinema è romano: le case di produzione e distribuzione sono a Roma, come anche le sedi competenti e i ministeri che finanziano il cinema. Io a Milano ho sempre lavorato in uno splendido isolamento: non mi hanno mai regalato il permesso di girare in una strada, ho sempre pagato tutto fino all'ultimo centesimo. Milano è disattenta al cinema, non ha una film commission che serva a qualcosa favorendo chi deve girare. In generale, Milano ha sempre avuto un gusto della cultura apparentemente sofisticato ma in sostanza molto limitato: La Scala e il Piccolo Teatro. Questi sono i monumenti, il resto non interessa. Le giunte da che mi ricordo io sono sempre state molto manageriali e burocratiche. Milano non è provinciale né campanilistica, è una città a cui non importa niente di avere un cinema di successo. Sarà molto orgogliosa delle sue squadre di calcio ma il cinema non gli interessa neanche prenderlo in considerazione.

Che cos'è il cinematografico?
Diceva Zavattini 50 anni fa: quando un autore smette di andare in tram e di guardarsi in giro perde le ispirazioni per scrivere le proprie storie. Ti trovi immerso nel bene o nel male in una moltitudine di culture, di razze, religioni, disperazioni, problematiche che potrebbero essere oggetto di mille storie, molto più originali di quelle che erano le storie originali di cinquant'anni fa. Quando ho iniziato pensavo a quanto erano fortunati in America ad avere una così vasta varietà di incastri con neri, gialli, rossi, perché quella era quella la realtà di tutti i giorni. Questo fenomeno è arrivato anche da noi solo che il nostro cinema non ha ancora imparato a usare questo materiale. I film impegnati che descrivono l'immigrato sfigato, rappresentano una banalità. Io parlo di raccontare una storia normale, di un indiano che si innamora di una cinese piuttosto di uno che si trova in mezzo a un casino di religioni e culture diverse dalla sua in un condominio in cui abitano dieci etnie e credi diversi. Questo tipo di storia, magari svolta in chiave umoristica, non è ancora stata sviluppata perché siamo ancora troppo freschi per questo tipo di contaminazione. La spettacolarità della società italiana attuale non è stata ancora resa spettacolare dal cinema.


Io Santo, Tu Beato (risate)

dall'imminte de marzo 2008

Sarti e Storti: santi subito




L'Italia è l'unico paese d'Europa dove serve coraggio, e ne serve tanto, per mettere in discussione e irridere le istituzioni. Serve coraggio perché noi riteniamo inopportuno, noi ci dissociamo, noi quereliamo, noi censuriamo. Lo abbiamo fatto quando tre autori televisivi, tre giornalisti, sono stati allontanati dalla tv pubblica perché esprimere la loro opinione, o meglio, fare il proprio lavoro è fare un uso criminoso del mezzo. Lo abbiamo fatto quando un programma è stato chiuso perché dei dirigenti di un'azienda ritenevano di sapere il significato del termine ‘satira’ meglio di chi di satira ci campa. Lo abbiamo fatto quando un gruppo di professori e ricercatori dell' Università della Capitale ha espresso il proprio dissenso nei confronti di un invito del tutto contestabile, stravolgendo i fatti, dimenticando il significato del termine democrazia o di usarlo con equità, alimentando versioni palesemente faziose della vicenda. Questo perchè in Italia in ogni disputa i buoni e i cattivi ci devono essere sempre dati, a priori, dal moral costume e dalla buona creanza, e di questa ci si deve fidare, perché è la versione giusta, lo dicono tutti (tutti chi?), perché non sia mai che un cittadino si trovi a dover valutare in base ai fatti e mettere in dubbio le verità ufficiali.
Se però alcuni di voi, spinti da sana curiosità e innocente spirito di irriverenza, vogliono sentire una voce che del moral costume se ne fa beffa, fino al 30 marzo al Teatro della Cooperativa di via Hermada 8, zona Niguarda, è in scena Io Santo, Tu Beato (risate). Protagonisti dello spettacolo Papa Pio XII e Padre Pio, che si incontrano alle porte del Paradiso in attesa di potervi accedere. Scherza con i fanti ma lascia stare i Santi. E perché? Non se lo meritano? Secondo Renato Sarti, autore del testo e attore insieme a Bebo Storti della piece, se lo meritano eccome. Senza contare che la vita di queste due figure storiche, di questi due uomini, di magagne e ambiguità su cui fondare una farsa ne é colma. Padre Pio è il santo più invocato dai fedeli, molto più di Gesù o della Madonna. E sicuramente, in vita, è stato anche molto più ricco di loro. A differenza di Francesco, il santo cui l'ordine del frate da Pietralcina era devoto, che si liberò della sua ricchezza donando la vita a Dio, Padre Pio grazie alla venerazione cui fu oggetto già ben prima della sua morte, diventò proprietario di considerevoli beni mobili ed immobili tanto che fu costretto a fare due testamenti a favore del Vaticano. E il voto di povertà? Un personaggio terreno, con i difetti propri di qualunque uomo: finte malattie per evitare il trasferimento in un convento sgradito e raccomandazioni per l'esonero dalla Leva. È questo il padre Pio rappresentato da Bebo Storti, un paesano simpatico e volgare, che l'attore riesce a rendere irresistibile al pubblico grazie a stilemi propri della Commedia dell'Arte, lazzi e giochi di parole inseriti fra le battute rivolte alla platea. Certo è difficile riuscire a fare una critica intelligente rifuggendo il cattivo gusto su temi così delicati, ma è questo il grande merito di Sarti e Storti, che provocano con responsabilità invocando la Scomunica. Al posto dei miracoli, sono altri i misteri messi in scena: riferimenti alla vicenda degli Arditi di Cristo o all'Operazione Candelabri di cui il lettore dovrà cercare maggiori informazioni altrove, dato l'esiguo spazio di questa rubrica. Se Padre Pio è ritratto soprattutto come un uomo comune distante quanto tutti noi dalla santità, Pio XII non può ricevere lo stesso trattamento. La Chiesa stessa si è trovata spesso in palese imbarazzo per il silenzio di papa Pacelli durante le torture, gli omicidi e le stragi naziste.




Non vi sono prove di veri abusi, diceva. Ma nulla disse invece delle stragi compiute dai religiosi cattolici croati nei confronti dei serbi ortodossi, degli zingari e degli ebrei. Né valsero a smuoverlo le testimonianze dei deportati sopravvissuti. Solo a guerra finita egli invocò misericordia, ma nei confronti di autorità religiose e gerarchi nazisti, colpevoli di crimini contro l'umanità, per molti dei quali favorì la fuga in Sudamerica. È grande Renato Sarti, il Pio XII di Io Santo, tu Beato, a ritrarre un personaggio che emerge sin dall'inizio come il più ragionevole fra i due, quello con il cui buonsenso è più facile identificarsi: da bravo papa egli sa come ottenere l'approvazione dei suoi fedeli. Per questo quando i due protagonisti si trovano sul banco degli accusati lo stupore e lo sdegno per le rivelazioni su Pacelli è maggiore rispetto a quelle sul frate di Pietralcina. Perché, in fondo, chi l'avrebbe mai detto? Ma se per Padre Pio siamo di fronte a peccati del tutto veniali non è con quattro Ave Maria e un Pater Gloria che si ottiene l'assoluzione da certe azioni criminose.
Come gli attori della commedia dell'arte Sarti e Storti chiamano più volte l'applauso durante lo spettacolo: l'applauso arriva ed è quello più liberatorio.

http://www.teatrodellacooperativa.it/


Antonino Valvo

Blaz - l'uomo blazé

di Marco Turconi

Igort: professione storyteller

dall'imminente dell'aprile 2007
"Chi è un autore: è uno che ha un osservatorio sul mondo, che riesce a capire che sguardo ha sul creato, sull'universo, e io vedendo quella cosa, leggendo quelle storie lì, capisco qualcosa di più su me stesso e del mondo. Questo è un autore, questo è quello che cerco come lettore". Chi sintetizza il lavoro dell'artista in questo modo è Igort - fumettista, storyteller. Se non lo conoscete è solamente colpa vostra: cinismo sacrosanto, ma d'accatto al tempo stesso, perché anche qui il suo nome ha cominciato ad essere pronunciato da poco e di sorpresa, dando però subito l'idea di essere uno di quelli da seguire. Igort esercita il "narrare per immagini" - così definisce il fumetto - dal 1979: e da allora non si è fermato, facendo conoscere il proprio nome in tutta Europa (e non solo), collezionando riconoscimenti ed esplorando campi diversi - cantante jazz con i Lo Ciceros, fondatore della casa editrice Coconino Press, conduttore radio su Popolare network e Radio2.
Delle decine di fumetti che ha firmato, 5 è il numero perfetto è forse quello che ha ricevuto più consensi: ed infatti, per guardarci vicino, nonostante sia stato edito cinque anni fa, è tuttora l'unico fumetto italiano che potete vedere in CUEM, la libreria dell'Università Statale di Milano. Si tratta di una storia noir ambientata a Napoli - e con i dialoghi in napoletano - che ha come protagonista Peppino Lo Cicero, ex guappo di prima categoria al servizio della camorra, padre di un figlio che ha seguito la sua strada e viene assassinato a sangue freddo durante una "commissione": la tragedia lo spinge a tornare in azione contro quelli che furono i suoi stessi datori di lavoro. Anche un profano del genere, come chi scrive, rimane affascinato soprattutto dallo stile del disegno: nella postfazione viene segnalata l'importanza della bicromia, ed in generale alcune vedute urbane di Napoli, la finezza e la sensibilità di alcune "inquadrature" spingono a sospendere la lettura e l'intreccio per concentrarsi sulla grafica - la scelta del dialetto poi è coraggiosa e riuscita. 5 è il numero perfetto è probabilmente la migliore opzione per chi vuole introdursi ad Igort e decidere se approfondire con altri lavori, da cercare nelle fumetterie milanesi.

Dedicargli uno spazio proprio in questa rivista, poi, non richiede nessun equilibrismo: l'intuitiva e naturale vicinanza tra cinema e fumetto viene potenziata ulteriormente dalla sua attitudine al noir. I passi seguenti provengono da tre brevi dialoghi con l'amico e collega Gianni Pacinotti, in arte Gipi (autore di diverse graphic novels e illustratore su Repubblica) che sono apparsi sul blog di Igort - http://www.igort.blogspot.com/ : sono stati utili per proporre qualche spunto.
Si parte dal cinema - come per Buzzati nello scorso numero, anche per Igort il passo sembrerebbe praticamente ovvio: "Il cinema è un linguaggio che io amo molto. Detto questo, non so come mi comporterei se dovessi fare un film: a volte ho delle immagini, mi sta capitando ultimamente (…). A volte mi capita di scrivere delle scene che non sono legate ad un fumetto, ma ad un racconto di per sé: potrebbero essere un romanzo, oppure un film". Il racconto, quindi, viene prima: codificarlo in fumetto, in prosa o in cinepresa è una scelta formale successiva. E' significativo che venga aggiunto: "(…) il racconto detta le regole: noi, secondo me, non dettiamo un cazzo, non siamo noi che decidiamo, noi seguiamo".
Occhi strabuzzati: perché al fumetto si arriva solamente alla fine, ma il percorso che si compire per arrivare a raccontare con carta, inchiostro e colla non può passare solamente per racconti su carta, inchiostro e colla: "(…) vedo una costruzione. Questa costruzione è fatta di diversi linguaggi: io nel fare fumetti non guardo solo fumetti, non mi nutro solo di questo. I fumetti sono una minima percentuale - Gipi annuisce - rispetto al cinema, alla letteratura, alla musica. Spesso ascolto delle musiche e mi dico: io devo disegnare con questa libertà".
Il percorso che Igort suggerisce è il più aperto ed esaltante possibile: il vissuto di ciascuno contribuisce a creare una pasta, una forma, un magma. Da questa pasta, forma, magma l'energia spinge all'espressione. I connotati dell'espressione - fumetto, cinema, letteratura, musica - sono il punto di arrivo, dove subentra la tecnica: ma si tratta di una deviazione finale radicata nello stesso movimento e nello stesso bisogno.
Per questo, senza nessuna contraddizione, possiamo parlare di un bravo fumettista su una rivista di cinema.

Giacomo Giudici

Intervista a Saverio Costanzo

Il problema non è fare un film: è farne due

dall'imminente del giugno 2007

a cura di Claudia de Falco






Sei laureato in sociologia della comunicazione, come sei arrivato al cinema?
In maniera casuale. Tutto è nato dalla tesi di laurea, che ho fatto a New York, per la quale avevo in mente un lavoro che comprendesse oltre alla parte cartacea anche una video. Guardando i documentari americani degli anni settanta, in particolare Wiseman, mi venne l’idea di lavorare su un bar italo-americano, e prenderlo come punto di osservazione per raccontare la comunità. Quella è diventata la mia tesi. Poi, continuando a fare questo tipo di lavori, ad un certo punto ho incontrato la storia del film palestinese: non potevo farne un documentario ed ho provato ha farne un film.

Private e In memoria di me, due film apparentemente molto distanti, non sono in realtà solo due punti di partenza diversi per parlare di libertà e di ricerca interiore?
Per me i due film sono molto legati, come erano legati anche ai precedenti documentari. La riflessione è sempre la stessa, quella appunto del percorso interiore che in In memoria di me è più esplicita, già nel soggetto del film. Inoltre il luogo chiuso, il perimetrare l’azione in un unico ambiente, già trasmette un messaggio alla base del film che è quello della fuga da quel luogo o della comprensione di quel luogo. E’ chiaro che in un certo senso parlano anche di libertà: in Private ce ne si priva non volontariamente mentre nel secondo film la privazione è autoindotta. L’idea dell’unico posto è quello che fa immediatamente venire fuori questa cosa.

Private è uscito in contemporanea con la nomina di Abu Mazen, in In memoria di me si parla di spiritualità, dei singoli modi di viverla ed interpretarla in un momento in cui la religiosità è in crisi. Quanto conta per te il legame con l’attualità? Credi che possa esistere un cinema che si distacchi totalmente dalla realtà in cui viviamo?
Per me qualsiasi cosa venga messa in scena è politica: ogni volta che qualcuno accende una telecamera su un soggetto del contemporaneo questo è politico.Tutto quello che si fa e si produce deve essere politico, il cinema è politica perché la vita è politica. Ogni film, anche il più disimpegnato, è un indice politico e questo fa sì che in qualche modo ci sia sempre la sensazione di attualità. L’idea di slegare i film dal tempo e dal mondo in cui vivo li renderebbe inutili. Il mio prossimo film quindi potrebbe anche essere di fantascienza, una commedia o un musical, ma comunque avrebbe dietro un’idea di attualità. La mia teoria è quella di partire da qualcosa di contemporaneo, per poi smembrarlo della sua contemporaneità è farne uscire un cuore che è assoluto. La storia di Private è la storia di qualsiasi guerra, di qualsiasi occupazione e quest’ultimo film non è altro che la domanda che l’essere umano si pone da quando esiste: chi sono io?che faccio qui? perché lo sto facendo? Tutte cose che prescindono dal tempo, in un contesto che può assomigliare a qualcosa che viviamo in realtà.



Ad un giovane che vuole iniziare che consigli daresti?
Di fare. Io ho cominciato molto presto, perché stando lì ero costretto a lavorare. Per me fare significa girare, montare, scrivere. Ho certezza del fatto che chi ha talento prima o poi viene fuori. Guarda l’Italia: è un paese in cui le opere prime prodotte sono circa il doppio di quelle che poi circolano. Significa che si è sempre alla ricerca di nuovi registi, di nuovi autori. Il problema non è fare il primo film, è fare il secondo: per il primo c’è desiderio di capire chi è capace di farlo ma poi… Se hai veramente qualcosa da dire andrai avanti.

Sei d’accordo con chi sostiene che il cinema verrà cannibalizzato dalla tv?
Per me no, non dalla televisione. La televisione non interessa più nessuno o interessa chi è lobotomizzato, chi vive di riflessi condizionati dalla televisione. Il problema è fino a quando il cinema resterà tale senza essere schiacciato dal sistema commerciale. Il cinema continuerà esserci ma sarà sempre più visto in forme non consone: internet, il dvd. Se muore la sala muore il cinema. La questione è riuscire a far sopravvivere il cinema non commerciale, non lasciare che tutto si appiattisca in esso. La gente continua ad andare a vedere film, il problema è che c’è ne è di un solo tipo. Il cinema rischia di essere schiacciato non dalla tv ma dal cinema stesso, dal suo mercato.

Quale strada dovrebbe intraprendere per sopravvivere ?
L’unica strada percorribile per chi fa cinema più o meno commerciale credo sia quella di crearsi un proprio pubblico di nicchia. Non è un pubblico di massa ma ti permette di girare il mondo, di far circolare le tue idee, i tuoi principi. Sono gli aspetti positivi della globalizzazione: io ho fatto un film e so che, attraverso i festival, le vendite internazionali, questo verrà visto in 30,40 paesi. E questo consente di andare oltre i confini, di parlare a molte più persone, che è ciò che il cinema dovrebbe fare sempre.

Isola della Moda

Nel quartiere Isola il fashion incontra il consumo critico



Che cos'è una città della moda? È una città in cui si produce moda e si lavora nella moda. Ma soprattutto è un posto in cui in cui si sente la moda come una cosa vicina e familiare, un patrimonio comune. In questa ideale città, a forza di stare in mezzo alla moda, gli abitanti si sentono incoraggiati a partecipare in modo autonomo alla creazione di bellezza; a ridefinire con il proprio lavoro quello che è moda. A Milano, questo accade? Come Murano e Faenza sono città del vetro e delle ceramiche, Milano si può considerare una città di artigiani della moda? Il pessimista radicale risponde no, e a tutto crede meno che a una moda quale patrimonio collettivo. Il suo pensiero è che la moda può esistere e mantenersi solo in quanto veicolo di esclusione, che lascia dietro di sé una lunga scia di invidie, di imitazioni, di conformismo.
La moda a Milano è però un fenomeno troppo ampio per essere tutto compreso in una lettura disfattista. Esistono realtà piccole, semi sconosciute, che parlano di consumo critico e di No Logo, di glocal di autoproduzione, di sviluppo sostenibile e di identità di quartiere, e provano a tradurre questo nugolo di intenzioni etiche in una pratica di commercio. Il flyer dell'Isola della Moda, in via Carmagnola, recita un invito sonante: «Una vetrina glamour per t-shirt di cotone biologico e giovani stilisti attenti all'ambiente e ai problemi sociali».
L'Isola della Moda è uno spazio di tre stanze nel pieno del quartiere Isola. Cento metri quadri riempiti di abbigliamento e accessori, oggettistica vintage, arredi originali. Tutto autoprodotto. Lo gestisce dal 2004 un gruppo di ragazzi: all'inizio solo t-shirt, le più facili da vendere, da 10 a 20 euro. Poi, piano piano, si passa a tutto il resto, sino agli abiti femminili e ai cappotti invernali. Oggi funge anche da showroom. Tutto quello che si vede si può comprare: quadri e fotografie, oggetti di design in vetro, una torre Eiffel alta come una persona, un pouf per (non) sedersi, acuminato come un porcospino. Una maglietta con il disegno di un cartone di latte in tetrapak, e in basso la scritta: My enemy, ci dice di una coscienza ecologica. In effetti buona parte degli abiti sono realizzati con tessuti e stampe naturali, mentre gli accessori discendono da materiali industriali riciclati, assemblati in nuove forme: nastri di videocassette sbobinati, o tutto il ferro della torre Eiffel, per esempio.



In via Carmagnola si parla di tematiche sociali con gli stessi termini con cui si discette di qualità fashion. All'inizio ci vuole un piccolo sforzo d'orecchio per tenere insieme i due discorsi. Autoproduzione, così, significa evitare lo sfruttamento di manodopera sottopagata, ma significa anche poter esibire un marchio made in Italy. E le t-shirt, per essere messe in vetrina, tanto meglio se hanno un concept che coinvolge materie etiche. L'impegno ambientalista e la povertà dei mezzi non pregiudicano comunque il successo delle collezioni de «l'unico atelier critico di Milano»:un paio di anni fa, la guida Lonely Planet per la settimana della moda meneghina affiancava i popolari stilisti dell'Isola a firme come Gucci e Prada.
Si arriva quindi a toccare il tasto bollente delle nuove costruzioni sull'area di Porta Nuova, distante da via Carmagnola un tiro di schioppo, e a discutere sui modi con cui preservare l'attuale assetto glocal e le rimanenze popolari del quartiere Isola: un profilo che si teme sarà compromesso dal termine dei lavori a Garibaldi. Una risposta che parte dallo showroom è l'indirizzo web inaugurato lo scorso 7 maggio: http://www.isolagaribaldi.net/, un portale in cui saranno inseriti il database di tutti i luoghi notevoli e il calendario degli eventi e degli incontri che costituiscono la vita mondana all'Isola. L'idea incoraggiante è quella di avviare un compatto coordinamento tra i vari spazi artistici, ristoranti e locali. Il timore che però ne si accompagna uscendo sulla strada è che questa iniziativa non andrà a coinvolgere chi più avrebbe bisogno di non restare solo: i veri ambienti popolari. Come le botteghe degli immigrati pugliesi e gli alimentari arabi, come i bar lividi dei cinesi, come le misere e per nulla artistiche tavole calde di Piazza Archinto.




Daniele Belleri

Una firma per Davide

La petizione al Tribunale per i minori di Bari per restituire ai genitori la potestà genitoriale


Nel link sottostante potete leggere la lettera dello zio di Davide, il bimbo di Foggia affetto dalla sindrome di Potter, nato senza reni e sottratto ai genitori dai giudici minorili per sottoporlo a dialisi. Il padre e la madre, contrari a questo crudele accanimento terapeutico, chiedono che il provvedimento venga sospeso e che venga riconosciuto loro il diritto di decidere sul futuro del figlio e sui trattamenti medici cui sottoporlo.

per leggere la lettera:
http://minimokarma.blogsome.com/2008/05/12/una-firma-per-davide/

per firmare la petizione:
http://www.petitiononline.com/davmar/petition-sign.html