Amen - Baustelle

Rimpiangiamo un decennio che non abbiamo mai vissuto

e rimpinguiamo i padri che dovremmo accoltellare


Volevo solo dire che i Baustelle mi piacciono molto, e piacciono anche a mio padre. Dice che gli ricordano quando era ragazzo. Mio padre si è fatto tutti gli anni Settanta nei gruppi extraparlamentari. Mio padre ha ascoltato Amen, l'ultimo disco dei Baustelle, e gli è piaciuto. Poi è venuto da me e in tono di sfottò mi ha chiesto "Che impressione ti fa che una cosa che piace a te, da ventenne, piaccia anche a tuo padre?". Io gli ho risposto "Nessuna. Se una cosa di oggi piace anche a te vuol dire che non è una moda. Vuol dire che ha un vero valore". Più tardi mi è venuto in mente che ogni generazione, per farsi, deve ammazzare simbolicamente i propri padri. E la mia generazione ha una preoccupante carenza di padri da ammazzare. Adesso: se i Baustelle, vale a dire una delle espressioni di musica pop politica più caratteristiche del decennio, in Italia, piacciono a mia padre, cosa può voler dire? Forse dovrei preoccuparmi. Dubito che mio nonno avesse amato gli Area, quando mio padre se li ascoltava; quasi di sicuro li avrà detestati. Ecco mi arriva un pensiero cattivo, spero di sbagliarmi. Altro che armarci il braccio, altro che pugnale: i Baustelle ci danno le vecchie fotografie e le giacche anni Settanta più stilose. Risultato, rimpiangiamo quel decennio che non abbiamo mai vissuto, e rimpinguiamo i padri che dovremmo accoltellare.Torno ai pensieri ordinari sui Baustelle, che in fin dei conti non hanno smesso di piacermi. Uno, la loro musica è buona; due, i loro testi sono ottimi: ripenso all'inizio di Il liberismo ha i giorni contati, con le sue parole puntualissime, quasi generazionali; tre, lui e lei che cantano sono belli e con stile. "L'erba fa male se la fumi senza stile". Stile, stile, tanto stile... Altro dubbio. Forse troppo stile? Mi viene in mente Oscar Wilde, penso che i dandy non fanno politica, non ne sono capaci: il loro parlare di politica è solo un altro modo per aumentare la propria vanità, per estraniarsi dal mondo presente. Mi cambio la maglietta dei Baustelle che indosso da due giorni. Ragiono sui nuovi elementi: i dandy di ogni epoca uniscono al disprezzo del presente la nostalgia per un'epoca d'oro che non hanno mai vissuto, un'epoca che naturalmente non è mai esistita, e che se loro stessi avessero vissuto, avrebbero disprezzato.Comunque, sono ben contento che Amen sia tanto infarcito di ragionamenti politici e di citazioni dalla storia repubblicana. E sarei ancora più contento se nascessero altri cinquanta, cento gruppi italiani che parlassero di queste cose. Ma in fin dei conti, non credo che accadrà. Qual è lo spazio, fra ascoltatori musicali mediamente spoliticizzati, o politicamente inconsapevoli, per un disco di canzoni politiche?C'è troppo vintage, troppo culto del passato, perchè i Baustelle possano rappresentare un qualcosa di reattivo e di nuovo. Amen sembra un disco uscito nel 1978, dopo la grande delusione del '77: ha quegli umori. Ma chi li ha vissuti? Mio padre, non noi, non i Baustelle. Quei malumori, anche se non fossero un autoinganno, anche se fossero in buonafede, sono in ogni caso un vicolo cieco. Il presente fa schifo? Rifugiamoci nel passato, che persino le magagne del passato sono migliori, più degne, delle magagne di oggi. Come la si metta, è pur sempre vintage, sempificazione narcisistica di tutto quello che è venuto prima.Conclusione. Parlando degli spettatori che avevano amato La Notte di Antonioni alla sua uscita nei cinema, nel 1961, Pasolini osservava in loro un "intimo compiacimento di vivere in un mondo angoscioso, sì, ma salvato, ai loro occhi, dalla raffinatezza dell'angoscia". È tutto qui, e i Baustelle corrono questo rischio. Però non ho voglia di dirlo a mio padre. In fin dei conti i Baustelle sono fatti per lui, è giusto che a lui li lasci. È strano a pensarci: la musica del figlio che piace solo al padre. Può iniziare così un incruento omicidio?

Daniele Belleri


Libet - libreria del riacquisto

Il gusto di rovistare


Se avete appena perso il vostro treno a Cadorna o se semplicemente vi capita di passare dalle parti di corso Magenta, sappiate che in via Terraggio 21, a un passo dall’Università Cattolica, si trova una libreria dell’usato unica nel suo genere. La Libet di Roberto Posca e Elena Ferrari ha aperto da poco ma si è imposta subito nel panorama cittadino per le sue attraenti peculiarità. Chiediamo ai due fondatori come è iniziata l’attività: “Abbiamo sempre lavorato come librai, ma vendevamo attraverso terzi, come grossisti. Nel settembre 2006 abbiamo voluto fare un passo in più, e tentare un lavoro differente: occuparci in prima persona di quello che proponevamo, con un rapporto diretto con i clienti”. Infatti è proprio il rapporto privilegiato riservato a chi entra alla Libet la grande qualità di questa libreria del riacquisto: “Diamo un normale servizio di librai. Seguiamo il cliente, lo consigliamo, cerchiamo il testo che potrebbe rispondere alle sue richieste, ed evitiamo cose come ‘avete qualcosa su Napoleone, provi a vedere là in fondo’. Certo, ci sono circa 20.000 volumi ed è difficile conoscerli tutti, ma un tempo chi faceva questo lavoro si comportava così”. Uno scambio fra chi vende e chi acquista impensabile oggi nelle grandi librerie di massa, più simili a centri commerciali che a venditori di cultura. Alla Libet i ogni titolo viene scelto e controllato singolarmente. I criteri? “Non scegliamo libri costosi: in genere cerchiamo quelli che i clienti chiedono di più perché esauriti o fuori catalogo. Oppure letture “scolastiche” che noi possiamo vendere a metà prezzo”. Perché dovreste decidere di non acquistare un usato? “Rifiutiamo edizioni in cattive condizioni. Poi ci sono degli argomenti che non trattiamo, come la giurisprudenza o l’informatica, perché invecchiano. Di solito evitiamo di acquistare autori da best sellers, pur sapendo che una volta messi sul banco vengono venduti subito. Trattiamo libri che hanno una durata nel tempo, opere che restano, si tratti di romanzi, saggi storici, cataloghi d’arte o di fotografia”. L’unico filo conduttore sembra essere la qualità, per il resto “È una normale libreria con letture che spaziano dalla cucina al teatro, dagli scacchi al design”. Ed è anche l’unica in Italia a fornire un servizio del genere, senza testi scolastici, con titoli su ogni argomento e dell’usato. Una attività che funziona: “la rotazione del magazzino è buona, e più che altro vanno riempiti gli spazi vuoti che si creano negli scaffali”. Un piccolo successo, perchè se da una parte l’atmosfera è intima e da quartiere, a rifornirsi alla Libet vengono da ogni parte della città come a confermare l’unicità dell’offerta. “Il prezzo, se il libro è in catalogo, di massima viene ridotto alla metà. Molto spesso però trattiamo titoli fuori catalogo ed è quindi la nostra esperienza a indicarci la cifra da porre. Certo, cerchiamo di essere coerenti e valutare in base al singolo volume, pur mantenendo un indice di accessibilità”. Prezzi alla portata di tutti che dovrebbero attirare anche ragazzi. Ma è davvero così? “Sicuramente vengono anche studenti, ma soprattutto per trovare autori o opere specifiche, letture universitarie. Che i giovani leggano poco è un dato di fatto, e in generale la nostra clientela è composta da persone di una certa età. Questo perché oggi i ragazzi hanno un approccio alla lettura più informatico, più veloce. E dire che qui abbiamo libri anche da 2 o 3 euro, quindi non è proprio una questione economica.” Quello che si è perso sembra essere il piacere della scoperta, la voglia di cercare fra gli scaffali - tutti rigorosamente ordinati secondo argomento e autore “Il gusto è rovistare e trovare qualcosa che non si stava cercando, di cui non si sospettava l’esistenza o con un’edizione a cui ci si sente più affezionati”. Un libro che era lì come ad aspettarti.

ERRATA CORRIGE



Segnaliamo un errore presente nel numero di aprile, in distribuzione in questo periodo.

Nell'articolo su Io Santo, tu Beato (risate) a pagina 12, è stato eliminato per errore il paragrafo che presentava lo spettacolo dando informazioni sul dove e il quando. Alla base dell'errore c'era la necessità di aggiornare le date, visto il ritardo che ha colpito l'uscita di questo mese a causa delle festività pasquali. Per una svista è stato eliminato l'intero paragrafo proprio dal documento mandato in stampa.


Lo spettacolo è andato in scena nel mese di marzo al Teatro della Cooperativa, che ne è il produttore, ed era la ripresa di una piece andata in scena lo scorso anno.


Ci scusiamo con il Teatro della Cooperativa e il suo staff che ha dato prova di gentilezza e disponibilità durante tutta l'elaborazione dell'articolo.


un nostro inedito


La decima vittima di Elio Petri
Ovvero come sfuggire al proprio destino


Ursula è fasciata in un completino rosa, ha la schiena nuda e pantaloni attillati. Ha un bikini metallico, fatto a punte, da cui spara proiettili e uccide. Marcello ha i capelli tinti di biondo e indossa una tunica color paglierino: è il ministro del culto dei tramontisti, i quali ogni sera, in piedi su una spiaggia, piangono alla vista del sole che si inabissa in mare. In una villa poco distante, un coccodrillo nuota in piscina.
Se avete pensato a una generica, frivola commedia di serie B, non siete sulla strada giusta. Il thriller fantascientifico in questione è La decima vittima, di Elio Petri, con Ursula Andress e Marcello Mastroianni, del 1965. Che dire di Elio Petri: a seconda che amiate il cinema politico oppure no, suoi film degli anni Settanta come La classe operaia va in paradiso e Todo Modo potrebbero essere per voi o splendidi o insopportabili. La decima vittima è anche, a suo modo, una vicenda impegnata, ma non vi chiede di essere appassionati di storia contemporanea; compie quindi un piccolo miracolo per l'Italia. Un film politico può piacere a chiunque? La decima vittima è vario, mosso, a volte incongruente, e ha almeno un paio di colpi di scena memorabili. Nei costumi, nel design e nelle ambientazioni ha uno stile calcato, quasi caricaturale (gli anni Sessanta che immaginano il futuro), e anche solo questa potrebbe essere una ragione per consigliare il noleggio.
Tratto da un racconto di Robert Sheckley, La decima vittima ipotizza una futura società in cui la violenza sia gestita razionalmente da un'Autorità internazionale, attraverso l'istituzione di una Grande Caccia all'uomo in dieci tappe. Nell'adattamento della storia originale per il suo film, Petri inserisce alcuni accenni alla situazione italiana di metà anni Sessanta, in particolare sulla questione del divorzio, che sarà introdotto solo nel 1970. Anche nell'Italia futura de La decima vittima il divorzio non è mai stato legalizzato. A margine delle vicende della Grande Caccia si agita quindi il leit motiv dell'odio verso l'istituto del matrimonio da parte di Mastroianni, cui la Sacra Rota ha impiegato sei anni a concedere la separazione dalla ex moglie. A un certo punto il protagonista arriva a riferire alla plurimaritata, americana Andress che «in Italia non si sposa quasi nessuno, non conviene, non c'è ancora il divorzio... Si convive: siamo molto religiosi». Dello spirito di questa battuta è impregnata tutta la storia e in particolare il finale, quando i toni paradossali sono accentuati e La decima vittima si spinge sul confine della farsa.
Proviamo simpatia per Elio Petri. Questo film rappresenta il suo tentativo di sfuggire al proprio destino di regista impegnato. Sappiamo bene, con Hitchcock, come quest'ultima ambizione possa stare a cuore ad un autore. La decima vittima é la sperimentazione di un tipo di film politico meno stereotipato, più sottile, ma altrettanto efficace, e soprattutto divertente quanto un episodio dei migliori James Bond.

Daniele Belleri

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