Intervista a Stefano Giulidori

tratto dall'imminente dell'aprile 2007

Il cinema?
Una mappa topografica della mente

Quando hai capito di voler fare cinema e di diventare un regista?


Non ho mai pensato di fare nient'altro, sin da quando ero bambino. Andavo al cinema regolarmente a vedere film spesso poco adatti alla mia età, oppure i blockbusters dell'epoca, secondo me molto belli negli anni 80. Dopo il liceo ho cominciato a lavorare in campo cinematografico facendo il proiezionista nei festival per poi entrare alla scuola del cinema di Milano, occupandomi dapprima di produzione. Il primo vero lavoro è stato fare l'assistente di produzione del film di Studio Azzurro, il Mnemonista. Quando ho deciso che la gavetta era finita ho iniziato a girare il primo cortometraggio.

Quali sono gli ostacoli che si incontrano?

Gli ostacoli sono interiori. Non credo sia poi così difficile fare un film oggi. È una questione di volontà, di desiderio di insistere. Diventare un regista e guadagnarsi da vivere così è un altro discorso. L'ostacolo fondamentale qui a Milano è che non c'è una cultura cinematografica di entertainment. Filmaker, il progetto che da anni permette ai giovani di realizzare i proprio progetti, resta sempre legato a una finalità sociale, a quella che viene chiamata anche alla Civica, l'urgenza del film, che deve essere un urgenza prettamente politica. Non c'è il desiderio di fare un film di genere, di intrattenimento.

Tu ti sei formato presso la Civica di Milano, cosa ci puoi dire in merito?

La Civica è una buona scuola, la migliore a Milano. È una realtà da cui escono una buonissima percentuale di persone che riescono a lavorare in questo ambito. Non parlo solo di cinema ma soprattutto di tv e nuovi mezzi di comunicazione, dove la richiesta è maggiore. Purtroppo ci sono delle lacune: non ci sono dei corsi legati a reparti fondamentali come scenografia, trucco, costumi, non c'è il corso di recitazione perchè per questo ci si appoggia alla Civica Paolo Grassi. I corsi tecnici sono senza dubbio i più qualificati: ripresa, audio, montaggio, e produzione. Il destino migliore forse ce l'hanno coloro che escono dal corso di sceneggiatura, che vengono poi scelti come autori.


Il tuo ultimo lavoro è dedicato a Giorgio Scerbanenco, che Milano racconta nei suoi romanzi ?

È quella che oggi è la zona tre, Venezia-Città Studi-Loreto, un luogo di immigrazione e di frontiera. Come Truffaut ha raccontato perfettamente gli anni 60 a Parigi, senza mostrare mai il fermento culturale e politico del periodo ma attraverso gli occhi dei suoi personaggi, così ha fatto Scerbanenco attraverso quelli di Lamberti e di coloro che popolano le sue storie: una Milano ubriaca di boom economico, tuttavia squarciata dai fantasmi della seconda guerra mondiale. Scerbanenco anticipa anche il volto della città che sarà, un territorio di guerra, o meglio di guerriglia. Oggi di quella città restano solo alcuni scorci: la piscina vuota dell'ippopotamo dello zoo di Porta Venezia o il diurno Venezia con le due colonne enormi davanti allo Spazio Oberdan. In Scerbanenco by numbers il desiderio era di fare un film d'epoca, e per farlo ho usato proprio questi scorci immutati nel tempo. Girare questo film per me è stato come porre le basi per un progetto futuro, un quaderno di schizzi in vista della realizzazione di un lungometraggio tratto dai testi di Giorgio Scerbanenco.

Stai pensando di girare altri lavori legati alla città?

Più che da città sono interessato da luoghi della mente, luoghi linchyani. Mi affascinano i sogni che non ti permettono di ricostruire la morfologia di una casa, dove apri una porta e ti ritrovi in una salotto che però è dentro un teatro, ti giri e sei in mezzo a una strada. Questo, secondo me, è il compito del cinema, il film deve essere una mappa topografica della mente. Come dei passaggi segreti nei castelli medievali. Lynch è uno dei pochi che riesce a fare questo tipo di cinema, insieme al Lars Von Trier della trilogia della E. Un altro grande autore di questi percorsi della mente era Andrej Tarkovskij.

Pellicola o digitale?

Non è questione di preferenza. Quello che ti può dare un supporto non te lo darà mai l'altro. Ci sono storie che vanno raccontate in digitale e altre che sono perfette per la pellicola. Il problema è chi fa i film in digitale immaginandoseli in 35mm e poi ripiega nel digitale magari affermando di aver sempre voluto lavorare con la telecamera. A Milano sono in molti così. È una mistificazione che la pellicola costi tanto: non sono cifre insormontabili e valgono ciò che guadagni nel risultato del film. Inoltre lavorando in digitale come si deve non si spende molto di meno.

Dacci una definizione di Cinematografico

Non ti saprei rispondere a parole. Potrei farlo con le immagini dei miei film, o con quelle dei grandi del cinema, che si sono posti come problema lo specifico filmico, su ciò che è puramente cinema. Forse dovrei darti una risposta fisica. Alcuni registi sono riusciti a ricreare un imprinting del cinema puro sulle loro immagini: Antoine Doinel che batte il pugno sul vetro salutando Renèè, Jean Paul Belmondo che corre alla fine di A bout de Souffle, i carelli infiniti di Tarkovskij, i grande Chaplin. Gli unici che riescono a fare del cinematografico oggi sono Kaurismaki,Von Trier, Kitano, Lynch e Besson. Per darti una definizione, cinematografico è quel tipo di cinema che è riuscito a fissare delle immagini e delle sequenze che sono rimaste nell'immaginario collettivo. Ed è quello che mi sforzerò di fare in tutti i miei lavori.