Intervista a Stefano Giulidori

tratto dall'imminente dell'aprile 2007

Il cinema?
Una mappa topografica della mente

Quando hai capito di voler fare cinema e di diventare un regista?


Non ho mai pensato di fare nient'altro, sin da quando ero bambino. Andavo al cinema regolarmente a vedere film spesso poco adatti alla mia età, oppure i blockbusters dell'epoca, secondo me molto belli negli anni 80. Dopo il liceo ho cominciato a lavorare in campo cinematografico facendo il proiezionista nei festival per poi entrare alla scuola del cinema di Milano, occupandomi dapprima di produzione. Il primo vero lavoro è stato fare l'assistente di produzione del film di Studio Azzurro, il Mnemonista. Quando ho deciso che la gavetta era finita ho iniziato a girare il primo cortometraggio.

Quali sono gli ostacoli che si incontrano?

Gli ostacoli sono interiori. Non credo sia poi così difficile fare un film oggi. È una questione di volontà, di desiderio di insistere. Diventare un regista e guadagnarsi da vivere così è un altro discorso. L'ostacolo fondamentale qui a Milano è che non c'è una cultura cinematografica di entertainment. Filmaker, il progetto che da anni permette ai giovani di realizzare i proprio progetti, resta sempre legato a una finalità sociale, a quella che viene chiamata anche alla Civica, l'urgenza del film, che deve essere un urgenza prettamente politica. Non c'è il desiderio di fare un film di genere, di intrattenimento.

Tu ti sei formato presso la Civica di Milano, cosa ci puoi dire in merito?

La Civica è una buona scuola, la migliore a Milano. È una realtà da cui escono una buonissima percentuale di persone che riescono a lavorare in questo ambito. Non parlo solo di cinema ma soprattutto di tv e nuovi mezzi di comunicazione, dove la richiesta è maggiore. Purtroppo ci sono delle lacune: non ci sono dei corsi legati a reparti fondamentali come scenografia, trucco, costumi, non c'è il corso di recitazione perchè per questo ci si appoggia alla Civica Paolo Grassi. I corsi tecnici sono senza dubbio i più qualificati: ripresa, audio, montaggio, e produzione. Il destino migliore forse ce l'hanno coloro che escono dal corso di sceneggiatura, che vengono poi scelti come autori.


Il tuo ultimo lavoro è dedicato a Giorgio Scerbanenco, che Milano racconta nei suoi romanzi ?

È quella che oggi è la zona tre, Venezia-Città Studi-Loreto, un luogo di immigrazione e di frontiera. Come Truffaut ha raccontato perfettamente gli anni 60 a Parigi, senza mostrare mai il fermento culturale e politico del periodo ma attraverso gli occhi dei suoi personaggi, così ha fatto Scerbanenco attraverso quelli di Lamberti e di coloro che popolano le sue storie: una Milano ubriaca di boom economico, tuttavia squarciata dai fantasmi della seconda guerra mondiale. Scerbanenco anticipa anche il volto della città che sarà, un territorio di guerra, o meglio di guerriglia. Oggi di quella città restano solo alcuni scorci: la piscina vuota dell'ippopotamo dello zoo di Porta Venezia o il diurno Venezia con le due colonne enormi davanti allo Spazio Oberdan. In Scerbanenco by numbers il desiderio era di fare un film d'epoca, e per farlo ho usato proprio questi scorci immutati nel tempo. Girare questo film per me è stato come porre le basi per un progetto futuro, un quaderno di schizzi in vista della realizzazione di un lungometraggio tratto dai testi di Giorgio Scerbanenco.

Stai pensando di girare altri lavori legati alla città?

Più che da città sono interessato da luoghi della mente, luoghi linchyani. Mi affascinano i sogni che non ti permettono di ricostruire la morfologia di una casa, dove apri una porta e ti ritrovi in una salotto che però è dentro un teatro, ti giri e sei in mezzo a una strada. Questo, secondo me, è il compito del cinema, il film deve essere una mappa topografica della mente. Come dei passaggi segreti nei castelli medievali. Lynch è uno dei pochi che riesce a fare questo tipo di cinema, insieme al Lars Von Trier della trilogia della E. Un altro grande autore di questi percorsi della mente era Andrej Tarkovskij.

Pellicola o digitale?

Non è questione di preferenza. Quello che ti può dare un supporto non te lo darà mai l'altro. Ci sono storie che vanno raccontate in digitale e altre che sono perfette per la pellicola. Il problema è chi fa i film in digitale immaginandoseli in 35mm e poi ripiega nel digitale magari affermando di aver sempre voluto lavorare con la telecamera. A Milano sono in molti così. È una mistificazione che la pellicola costi tanto: non sono cifre insormontabili e valgono ciò che guadagni nel risultato del film. Inoltre lavorando in digitale come si deve non si spende molto di meno.

Dacci una definizione di Cinematografico

Non ti saprei rispondere a parole. Potrei farlo con le immagini dei miei film, o con quelle dei grandi del cinema, che si sono posti come problema lo specifico filmico, su ciò che è puramente cinema. Forse dovrei darti una risposta fisica. Alcuni registi sono riusciti a ricreare un imprinting del cinema puro sulle loro immagini: Antoine Doinel che batte il pugno sul vetro salutando Renèè, Jean Paul Belmondo che corre alla fine di A bout de Souffle, i carelli infiniti di Tarkovskij, i grande Chaplin. Gli unici che riescono a fare del cinematografico oggi sono Kaurismaki,Von Trier, Kitano, Lynch e Besson. Per darti una definizione, cinematografico è quel tipo di cinema che è riuscito a fissare delle immagini e delle sequenze che sono rimaste nell'immaginario collettivo. Ed è quello che mi sforzerò di fare in tutti i miei lavori.

COI TEMPI CHE CORRONO

8 luglio
presso il BoccascenaCafè

COI TEMPI CHE CORRONO


Scritto da Antonino Valvo e Giacomo Bisanti
Con Ennio Giuliani, Samuel Sciarra e Tommaso Tognotti
Musiche di Nicolò Lavelli
Regia di Antonino Valvo


Tommaso Magrini è un ragazzo intelligente, ambizioso e disoccupato. Il giorno del colloquio più importante della sua vita Tommaso è pronto ad affrontare qualunque prova pur di ottenere un posto sicuro. Ma non può immaginare cosa stia per capitargli. Una dramma comico contemporaneo che mette a nudo le regole italiche del mondo del lavoro in una vicenda a metà strada tra Hitchcock e Ionesco. I personaggi del cortometraggio mentono su tutto e solo alla fine, con un assurdo colpo di scena, la verità emergerà in tutta la sua cattiveria (e ci scappa anche il morto).

L’imminente è una rivista indipendente nata nel 2005. Inizialmente dedicata esclusivamente al cinema, dal 2008 ha ampliato il suo sguardo critico verso altre forme artistiche. Da sempre impegnata nella promozione e l’organizzazione di eventi culturali nuovi e originali, con la produzione di Coi Tempi Che Corrono, cortometraggio indipendente scritto e diretto dallo stesso gruppo di redattori, passa a dare forma filmica alla sua proposta editoriale.

DISTOPIA



Rassegna culturale

di umorismo nero e ricerca del sublime



6/8/10 luglio

Presso il BoccascenaCafè
Corso Magenta 24, milano

Aperitivo dalle 18.30
Inizio spettacoli 21.15


INGRESSO GRATUITO




Distopia?
Distopia è un progetto nato da attori, musicisti e autori della scena indipendente milanese. Il significato di distopia si oppone a quello di utopia (un non luogo dove tutto è come dovrebbe essere) nel rappresentare una società alla deriva, spiacevole e indesiderabile: l'obiettivo è ammonire sulle conseguenze di un sistema che non persegue il progresso dell'umanità bensì il suo declino.
La rassegna che si terrà al Boccascenacafè, all'interno di Palazzo Litta, in cui si trova il più antico teatro attivo della città, si propone di presentare con umorismo e professionalità tre epigoni umani, tre storie diverse ma legate tra loro dal paradosso che muove i conflitti tra i personaggi.



Programma


6 luglio
The Tom Macmalaman Show
ritorno al periodo macabro

Scritto e diretto dalla compagnia de I Travagliati
Con Marika Pensa, Tommaso Tognotti e Stefania Umana


U n poeta travagliato, Tom Macmalaman cerca l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua, mentre le proiezioni della sua mente e del suo corpo fanno del suo ego il campo di battaglia della pazzia e dell'incoerenza umana…ana.
In una società che ci bombarda di idoli e vitelli d'oro, lo Show cerca di tornare, attraverso poesia e azione, ai valori mesti, con una comicità surreale mista ad un senso di angoscia. Inutilità, incomunicabilità, superficialità, ripetitività e gastronomia vengono presi di mira, amplificati e infine ridicolizzati attraverso la parola e situazioni paradossali…ali.
Insomma, I Travagliati vogliono dire NO, ma a che cosa poi? Alla società in cui viviamo? Al nostro stile di vita? Al nostro modo di amare? Al nostro modo di ragionare? Che cos'è la normalità? Esiste davvero? Se sì, è riconoscibile? E se è riconoscibile è comunicabile? Eh?? Ciao.


8 luglio
Coi tempi che corrono

Scritto da Antonino Valvo e Giacomo Bisanti
Con Ennio Giuliani, Samuel Sciarra e Tommaso Tognotti
Musiche di Nicolò Lavelli
Regia di Antonino Valvo


Tommaso Magrini è un ragazzo intelligente, ambizioso e disoccupato. Il giorno del colloquio più importante della sua vita Tommaso è pronto ad affrontare qualunque prova pur di ottenere un posto sicuro. Ma non può immaginare cosa stia per capitargli. Una dramma comico contemporaneo che mette a nudo le regole italiche del mondo del lavoro in una vicenda a metà strada tra Hitchcock e Ionesco. I personaggi del cortometraggio mentono su tutto e solo alla fine, con un assurdo colpo di scena, la verità emergerà in tutta la sua cattiveria (e ci scappa anche il morto).
L’imminete è una rivista indipendente nata nel 2005. Inizialmente dedicata esclusivamente al cinema, dal 2008 ha ampliato il suo sguardo critico verso altre forme artistiche. Da sempre impegnata nella promozione e l’organizzazione di eventi culturali nuovi e originali, con producendo questo cortometraggio passa a dare forma filmica alla sua proposta editoriale.

10 luglio
Moby Dick

tratto da Moby Dick di H. Melville
Con Marika Pensa e Samuel Sciarra
Musica e suoni di Walter Bagnato
Regia Marika Pensa e Samuel Sciarra



Un’interpretazione del capolavoro di Melville che esalta le numerose allegorie presenti nel testo, rappresentate dall'ossessione di Achab e dal grande simbolismo evocato dal mare. Il desiderio di conoscenza, e l'eterna inclinazione dell'uomo a sprofondare in un pensiero ossessivo, non tiene conto né del raziocinio nè dei limiti invalicabili della natura e di Dio, ma travolge ogni altra cosa nel momento stesso in cui sfida l'infinito.
La consapevolezza di non poter avvicinare così tanto il "fuoco" della conoscenza, senza subirne le conseguenze, rende, ancora oggi, quest'opera attualissima, e induce lo spettatore a interrogarsi su questioni che hanno origine con la comparsa dell'uomo.
Due attori e un musicista sulla scena, rievocano ambientazioni, pensieri interiori, riflessioni filosofiche, che appartengono all'animo di ognuno di noi. Moby Dick è una vera e propria performance attorale e musicale, di cui lo spettatore è parte integrante.

MOBY DICK

10 luglio
presso il BoccascenaCafè
Moby Dick
tratto da Moby Dick di H. Melville
Con Marika Pensa e Samuel Sciarra
Musica e suoni di Walter Bagnato
Regia Marika Pensa e Samuel Sciarra
Crapula teatro presenta


La nostra interpretazione del capolavoro di Melville, esalta le numerose allegorie presenti nel testo, rappresentate dall'ossessione di Achab e dal grande simbolismo evocato dal mare.
Il desiderio di conoscenza, e l'eterna inclinazione dell'uomo a sprofondare in un pensiero ossessivo, non tiene conto né del raziocinio nè dei limiti invalicabili della natura e di Dio, ma travolge ogni altra cosa nel momento stesso in cui sfida l’infinito.
La consapevolezza di non poter avvicinare così tanto il “fuoco” della conoscenza, senza subirne le conseguenze, rende, ancora oggi, quest’opera attualissima, e induce lo spettatore a interrogarsi su questioni che hanno origine con la comparsa dell’uomo.
…” Tutti gli oggetti visibili, amico, non sono che maschere di cartone. Ma in ogni evento, nella vivezza dell'atto, nella certezza dell'azione, vi è qualcosa di sconosciuto e raziocinante che mostra le proprie rattezze dietro la maschera priva di ragione. Se l'uomo vuole colpire, colpisce attraverso la maschera! Come può il prigioniero uscire all'eremo se non sfondando il muro? Per me, la Balena Bianca è il muro che mi è calato davanti. A volte penso che dall'altra parte non ci sia nulla. Eppure è già abbastanza, mi sta addosso, mi schiaccia; mi appare dotata di una forza inesorabile, sorretta da una imperscrutabile cattiveria.. - proprio questa imperscrutabilità che odio sopra ogni altra cosa.”…
Due attori e un musicista sulla scena, rievocano ambientazioni, pensieri interiori, riflessioni filosofiche, che appartengono all’animo di ognuno di noi. Moby Dick è uno spettacolo immediato, dove i protagonisti danno vita a tutti i personaggi facendoli agire all’interno della trama narrativa.
Questo spettacolo, diverso da una lettura tradizionale, si articola in una vera e propria performance attorale e musicale, di cui lo spettatore è parte integrante.
Note di Regia
La scelta di una poetica immediata ci ha dato la possibilità di lavorare sulla presenza dell’elemento umano, il corpo/voce dell’attore diventa il contenitore trasformabile che si adatta a tutti i personaggi (anche quelli di sesso opposto), ed esalta gli istinti umani che ci mostrano la via, ma che possono anche spingerci fino alla morte.

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THE TOM MACMALAMAN SHOW

6 luglio
presso il BoccascenaCafè
The Tom Macmalaman Show
ritorno al periodo macabro
Scritto e diretto dalla compagnia de I Travagliati
Con Marika Pensa, Tommaso Tognotti e Stefania Umana
Il trio TRAVAGLIATI presenta



ritorno al periodo macabro
Spettacolo comico, grottesco, surreale e poetico.



La Storia


Tom Macmalaman è un poeta travagliato, segregato in un castello inavvicinabile.
In compagnia delle sue ossessioni e delle sue perversioni cerca l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua.
Le sue compagne di viaggio onirico, decisamente femminili, diventeranno la proiezione del suo ego, rendendolo campo di battaglia della pazzia e dell’incoerenza umana…ana
Dopo un periodo governato dalla noia finalmente la realtà, fondendosi alla fantasia, si sovraccaricherà del suo significato più intrinseco portando Tom Macmalaman e le sue due proiezioni a dare vita ad un gioco perverso e ossessivo che li porterà all’autodistruzione, emblema del travaglio dell’umanità.
Attraverso la poesia e l’azione teatrale si cerca di ritornare ai valori mesti, in una società che ci bombarda di falsi idoli e vitelli d’oro, con una comicità surreale, grottesca mista ad un senso di angoscia che aleggia per tutto lo spettacolo.
Inutilità, incomunicabilità, superficialità, ripetitività e gastronomia vengono presi di mira, amplificati e infine ridicolizzati attraverso la parola e situazioni paradossali…ali.



Insomma, I “Travagliati” vogliono dire NO, ma a che cosa poi?
Alla società in cui viviamo?
Al nostro stile di vita?
Al nostro modo di amare?
Al nostro modo di ragionare?
Che cos’è la normalità? Esiste davvero? Se si, è riconoscibile? E se è riconoscibile è comunicabile?
Eh??
Ciao.



I TRAVAGLIATI
Il trio “ I Travagliati” è composto da 3 membri: Marika Pensa, Stefania Umana, Tommaso Tognotti. Si formano presso la scuola teatrale “Quelli di Grock” di Milano diplomandosi nel 2006.
Tutti e tre attualmente lavorano parallelamente come attori e insegnanti di teatro.
Il “ Tom Macmalaman Show” è la loro prima produzione.

distopia



Rassegna culturale
di umorismo nero e ricerca del sublime

6/8/10 luglio
Presso il BoccascenaCafè
Corso Magenta 24, milano


Aperitivo dalle 18.30
Inizio spettacoli 21.15



INGRESSO GRATUITO


Presentazione
I Travagliati, l’imminente, Crapula Teatro e il BoccascenaCafè sono lieti di invitarla il 6 - 8 -10 luglio alla rassegna culturale dal titolo Distopia. Tre spettacoli per tre sere di luglio per promuovere un’iniziativa giovane e diversa. L’ingresso e gratuito esclusa consumazione: in attesa dell’inizio degli spettacoli dalle 18.30 sarà possibile gustare l’aperitivo presso il BoccascenaCafè, all’interno del bar o nel cortile di Palazzo Litta.
Gli spettacoli inizieranno alle 21.15.


Distopia?


Distopia è un progetto nato da attori, musicisti e autori della scena indipendente milanese. Il significato di distopia si oppone a quello di utopia (un non luogo dove tutto è come dovrebbe essere) nel rappresentare una società alla deriva, spiacevole e indesiderabile: l'obiettivo è ammonire sulle conseguenze di un sistema che non persegue il progresso dell'umanità bensì il suo declino.
La rassegna che si terrà al Boccascenacafè, all'interno di Palazzo Litta, in cui si trova il più antico teatro attivo della città, si propone di presentare con umorismo e professionalità tre epigoni umani, tre storie diverse ma legate tra loro dal paradosso che muove i conflitti tra i personaggi.
info.distopia@gmail.com

Il passaggio della linea di Pietro Marcello

Perchè saliamo su un treno?



Cosa sono i confini? Linee di demarcazione reali o immaginarie che determinano spazi, persone, pensieri, sentimenti. Al di qua e al di là tutto cambia, tutto è diverso. Ogni volta che varchiamo una soglia, stringiamo una mano, rivolgiamo la parola a qualcuno attraversiamo un confine, stabiliamo un contatto con una realtà altra. Questo è viaggiare. Indagare l'ignoto. Scrutare, affascinati, l'orizzonte e i suoi cambiamenti e scoprire cosa di questo 'mondo nuovo' ci piace e cosa no. Confrontarci con esso, conoscerlo e definirlo. Il viaggio tipo è la vita. Ogni scelta altro non è che un passaggio di confine. Nulla è predeterminato. Il nostro percorso è figlio dei gesti che attimo dopo attimo, consapevolmente o meno, compiamo. In alcuni casi le nostre decisioni sono dettate da ragioni o motivazioni concrete, altre volte si tratta di coincidenze ed è così che, quasi per caso, ci si trova a condividere un destino (o parte di esso), una casa, un compito. Un viaggio. Cos'è che spinge a salire su un treno? Perché attraversare tutto il paese? Vacanza, lavoro, famiglie lontane da raggiungere. Molteplici sono le risposte, molteplici le variabili. Perché un lento convoglio notturno? Non è forse più confortevole viaggiare in auto, in aereo o con l'avanzata tecnologia dell'alta velocità? Spesso il denominatore comune delle tante preferenze accordate è il risparmio. Risparmiare tempo e denaro. Viaggiando di notte si guadagna una giornata di lavoro e lavorando si guadagna. E alla fine 'siamo tutti schiavi del denaro' anche se, o forse proprio perché, ' il denaro è dannato'. Per Pietro Marcello quei vagoni rappresentano un viaggio nel viaggio. Prendere posto negli scompartimenti o tra gli strapuntini vuol dire conoscere persone e storie. Condividere problemi, speranze, visioni di vita. Oltrepassare confini non solo regionali ma anche mentali, abbattere barriere linguistiche, luoghi comuni e pregiudizi. Cercare di comprendere. Ascoltare e (ri)raccontare. E mentre l'Italia con le sue stazioni fa da sfondo alle parole in libertà di un microcosmo ampio e variegato la macchina prende confidenza con l'ambiente, si confonde coi tanti passeggeri che affollano giorno dopo giorno, notte dopo notte, questi treni a lunga percorrenza diventando così solo uno dei tanti con cui chiaccherare nell'attesa di arrivare. Capita allora che carrozze e rotaie diventino il simbolo di una libertà assoluta e che guardare oltre il finestrino la linea dell'orizzonte che progressivamente e instancabilmente si allontana per poi riavvicinarsi non affascini più.




Claudia De Falco

Angelo Badalamenti

dall'imminente del marzo 2006

Seduzioni cupe scandite da un basso continuo


Il progetto di Mulholland drive era nato già nel 1999, pensato come film per la tv con la regìa di Lynch. La cura della colonna sonora era stata affidata, ancora una volta, ad Angelo Badalamenti, il quale pensò da subito al tema principale del film: note ricche di evocatività e tratti oscuri, per dare voce alle immagini di un film ellittico, complesso, visionario, che cerca risposte e pone soltanto domande.
Dopo gli studi presso la celebre Eastern School of Music, il giovane Badalamenti (classe 1937) inizia a percorrere la propria affascinante strada verso il mondo della musica da film; a partire dai primi anni Settanta crea alcune composizioni con lo pseudonimo di Andy Badale. E' il suo pianoforte ad accompagnare la voce, poco addomesticata, di Isabella Rossellini in Velluto blu di Lynch: il regista ascolta la sua musica in una audiocassetta e ne rimane conquistato. Ne nasce una collaborazione profonda, e si consolida tra i due artisti la scelta di un consapevole metodo di lavoro "gomito a gomito". Ha così descritto Badalamenti: "(…) Mentre io sto suonando, David vede, immagina cose. Egli dipinge nella sua mente immagini, mette a fuoco progetti e idee, spesso andando ben oltre ciò che si era prefissato…" E' possibile parlare di vera e propria "osmosi" tra le due creazioni artistiche, quella del compositore e quella del regista, unite da una sintonia che è al tempo stesso emotiva, estetica e concettuale.
Addirittura è successo che, durante la complessa genesi di Mulholland drive, i due si scambino bizzarramente i ruoli, senza eccessivi traumi: Badalamenti interpreta difatti nel film l'ambiguo e indisponente produttore cinematografico, dai tratti vagamente lugubri e mafiosi; Lynch, dal canto suo, firma alcuni momenti della colonna sonora. Quest'ultima riveste un ruolo di primo piano nel film grazie alla sua spiccata capacità di legarsi alle immagini: un tema principale di toni marcatamente oscuri e "lynchiani", cui il compositore decise poi di aggiungere gli archi. Da ultimo, come racconta lo stesso Badalamenti, fu in seguito ad un intenso soggiorno a Praga che, d'intesa con Lynch, vennero inseriti nei brani della soundtrack anche clarinetti e bassi: "(…) Che crearono un effetto astratto simile all'innescarsi di un incendio, di ciò che ti scalda l'anima".
Le partiture di Badalamenti sono intense, riconoscibili, "tragicamente dense ed eleganti" come le note del Twin Peaks (1990-'92) che stregarono il pubblico e raggiunsero vendite quasi impensate per una colonna sonora. La personalità di un compositore lucido e sempre alla ricerca di atmosfere, che nella sua carriera sempre meno ha voluto prescindere dal contatto diretto con i registi, Lynch su tutti, poiché ama "avere qualcuno accanto a sé che partecipi al suo lavoro, così da poterne sentire le vibrazioni… questo è il momento in cui la metà dell'opera è fatta…"
Atmosfere seducenti, misteriose, che affascinano sul filo dell'ambiguità e della visione che inghiotte e fa disorientare lo spettatore: in un mondo immaginifico e musicale che è, sostiene Badalamenti, "un po' scuro".
"Io penso a questo mio mondo come a qualcosa di tragicamente bello. Questo è il modo in cui descriverei quel che amo di più: tragicamente bello."


Jessica Perini

Still Life by Jon Knautz



Il canadese Jon Knautz (Teen massacre, The other celia) ha già esplorato strani mondi, e con Still life si supera. Pochi movimenti di macchina, un montaggio prima lento e poi sempre più veloce condensano in appena otto minuti circa, mistero, angoscia e una sensazione di claustrofobia in un efficace climax. Still life si apre su tanta neve e una lunga e deserta strada dritta. Neve e strada che creano un ambiente vuoto e sterile in cui un giovane ragazzo impasticcato e pieno di caffeina (Trevor Matthews), si trova alla guida. Finisce la benzina e ripara in un piccolo villaggio immerso nel vuoto totale, dove è coinvolto in un incidente. Vorrebbe aiutare il ragazzo investito, ma realizza che qualcosa non va e comincia per lui un’inaspettata avventura in questo strano e desolato paese, abitato da manichini, immobili. Per la strada e in un bar il ragazzo non trova né aiuto né alcun tipo di umanità, ma solo questi freddi manichini che gli si muovono alle spalle, a scatti, in un movimento che non ha nulla di umano, ma tanto di surreale. Sembrano vivi e sembrano braccarlo, si sente soffocato, e non rimane che fuggire nella prima casa. Dentro, ancora manichini che si muovono a scatti e lo circondano tentando di fermarlo. Il ragazzo in preda al panico e all’angoscia rompe i manichini, ma al piano di sopra, davanti a uno specchio, rimarrà pietrificato e scioccato da ciò che vede. Qualcosa è successo. Per scoprirlo? Facile: fate doppio clic QUI.

Dino Buzzati

dall'imminente del febbraio 2007

L’opera d’amore e il gioco pessimista
Se nello scorso numero di Imminente si è cercato di dimostrare come, in senso lato, tutte le strade portino al cinema, questo articolo vorrebbe essere un piccolo tributo a chi di queste vie ne ha percorse diverse, raccontando il vero e l’immaginario con la stessa straordinaria onestà intellettuale. Appena scaduto il centenario della nascita vorremmo quindi ricordare Dino Buzzati, coscienti che nel parlare di un uomo così eclettico e totale le distanze tra gli argomenti diventano sottili.
Eclettico per la capacità “passiva” di subire influenze e suggestioni dai generi più vari, totale per quella “attiva” – più unica che rara - di saperle riproporre in forme tanto diverse tra loro da sembrare, a prima vista, inconciliabili: l’attività giornalistica come cronista, quella letteraria come autore di romanzi e racconti brevi, quella di artista pittore-fumettista e di regista teatrale. Stupisce soprattutto come ci sia una cifra di fondo – un marchio, leggero quanto incisivo – che Buzzati riesce ad imporre ad attività così diverse tra loro, che spaziano dal raccontare l’accaduto alle raffigurazioni erotiche e surreali dei dipinti, alle storie infantili per il “Corriere dei piccoli”. Formalità, innocenza, immaginario, devianza sono elementi che da opposti vengono resi complementari, rintracciabili in qualsiasi lavoro, solo dosati diversamente a seconda dell’occasione e dell’obiettivo.
La stessa coesistenza di elementi opposti si può ritrovare anche nella biografia: nativo di Belluno, e legatissimo alle sue radici culturali, Buzzati saprà essere contemporaneamente provinciale e cittadino, qualcosa di più di un milanese d’adozione. Saprà immaginare e vivere con la stessa efficacia le sue montagne e atmosfere rurali – ecco l’attività alpinistica, spesso tradotta in letteratura e pittura, e il ciclo dei quadri “I miracoli della Val Morel”, scherzosamente impregnato di superstizione contadina – e Milano – la città, l’atmosfera urbana metafisica ed umana. A volte mischiandole letteralmente, come nella celebre raffigurazione di Piazza del Duomo trasfigurata in un paesaggio dolomitico.


L’occasione per riscoprire la parte forse meno nota della sua opera – l’impegno nella pittura e nel fumetto, che tuttavia era considerata dallo stesso autore la propria più autentica inclinazione - è stata offerta con la splendida mostra “Dino Buzzati – storie disegnate e dipinte”, allestita alla Rotonda della Besana e conclusasi il 28 gennaio: una panoramica esauriente e varia, incentrata soprattutto sul “Poema a fumetti”, lavoro della seconda metà degli anni Sessanta in cui si possono rintracciare alcuni degli elementi che accompagnano tutta la carriera di Buzzati e che, in un certo senso, interessano da molto vicino questa rivista.
(brevissima trama?)
Un elemento è, come anticipato, la coesistenza dell’immaginario e del reale, con la stessa incisività. In questo caso “il reale” è proprio Milano. Buzzati non esiterà a collocare l’accesso agli inferi in un luogo preciso del centro: tale via Saterna, il cui imbocco segreto si troverebbe in Largo La Foppa, all’angolo d'incrocio fra via della Moscova e Corso Garibaldi, nello spazio che è oggi occupato dalla libreria Utopia.
Dallo stesso “Poema a fumetti” emerge un’altra caratteristica, propria del narrare per immagini ma qui forse ancora più marcata: un senso cinematografico. Il rapporto tra Buzzati e il cinema è sottile, un corteggiamento (fintamente?) disinteressato. Nell’unica consistente intervista televisiva rilasciata, dichiara di non sentirsi adatto al ruolo di regista, ma ammette di avere ricevuto delle proposte interessanti per inscenare alcuni dei suoi più famosi romanzi, poi lasciate cadere – e d’altra parte sarà, come accennato, regista teatrale, ma anche autore di cortometraggi. E i suoi romanzi più famosi, “Il deserto dei tartari” e “Barnabò delle montagne”, diventeranno infine dei film.


Questa unica, minima incompiutezza della sua straordinaria esperienza artistica e umana è una punta quasi piacevole: rimane, Dino Buzzati, un modello di intellettuale – gigante ed umile insieme, antiretorico senza ostentarlo e graffiante nel rapporto con i media conformati – con pochissimi pari per onestà e talento. Caratteristiche che ce lo fanno sentire vicinissimo e necessario.
Giacomo Giudici

Libreria del mondo offeso

La nudità dei caffè parigini, la nostalgia del Sudamerica, il sogno di Cuba


Tutti sappiamo che il libro "è stato mercificato", che "ha perso la sua sacralità". Espressioni di questo genere indicano la banale verità che, mentre un migliaio d'anni fa un libro era frutto di mesi di lavoro, un oggetto unico e soprattutto molto costoso, oggi è un oggetto di facile reperibilità, con prezzi alla portata di tutti, prodotto ovunque al ritmo di milioni di copie al minuto. Certo un codice miniato vale da ogni punto di vista più di un paperback da aeroporto, ma a parte questo il passo avanti è evidente: se tutti possono leggere e tutti possono scrivere, vuol dire che la libertà d'espressione è in buona salute! Purtroppo, benché formalmente vera, la frase precedente suona stonata a tutti, a me per primo, perché la realtà dei fatti è che non tutti quelli che scrivono sono pubblicati (per fortuna!) e che non tutti quelli che vengono pubblicati riescono a ritagliarsi uno spazio commerciale.Quando sono andato all'inaugurazione de La Libreria del Mondo Offeso ho chiesto a Laura, la proprietaria: che senso ha aprire una piccola libreria in un interno di corso Garibaldi quando esistono già centinaia di supermercati del libro con decine di sale, centinaia di offerte e milioni di titoli? La risposta è stata: "perché ce n'è bisogno", la LdMO è un progetto politico e la convinzione che gli ha dato slancio è che cultura e politica si muovano (o "dovrebbero muoversi") insieme, implicandosi a vicenda. L'atmosfera che si respira all'interno è indescrivibile e nel nuovo arrivato si riversano insieme la ricercata nudità dei caffè parigini, la nostalgia del Sudamerica, il sogno di Cuba. Chi entra nella "casa" di Laura e Cristina (una delle dieci dipendenti italiane assunte solo tramite il curriculum) si ritrova, come i bambini, ad elencare a voce alta quel che incontra, cercando di scovare tra gli oggetti il senso d'accogliente estraneità di cui il luogo è pervaso. I mattoni a vista, un tavolone di legno scuro, le caramelle, un pianoforte, tavolini per gli scacchi, giocattoli d'altri tempi e, soprattutto, i libri; solo titoli italiani, solo titoli contemporanei…solo…non basterebbero settimane per orientarsi nel marasma di volumi fuori commercio, prime edizioni, titoli mai sentiti eppure tanto attraenti, teatro, narrativa per bambini…Il Mondo Offeso, quello calpestato dai nostri stessi sprechi, ammutolito dal fragore delle notizie da rotocalco scandalistico, sembra avvolgere con il suo sdegno questo piccolo angolo, situato nel centro della città ma infinitamente lontano da essa; le copertine in carta spessa dei piccoli editori, le rilegature a mano, la vasta sessione di cultura politica dimenticata, premono per farsi notare, per tornare a parlare.E qui si torna al discorso di prima. Perché aprire una piccola libreria? Per dare un colpo al mondo della merce e tornare a sentirsi parte del sacro; per creare un luogo dove la gente possa incontrarsi, dove la figura del "libraio" viva ancora, dove il rapporto con il libro sia più personale. Sono tutte risposte corrette e che stanno alla base dell'impresa ciclopica di avere una piccola libreria a Milano, ma a mio avviso la risposta più importante è questa: il più grande merito di una piccola libreria è di farsi manifesto della libertà di parola, di mostrare a chi vi entra cose che nei supermercati del libro non vengono mostrate, presentare realtà (letterarie, sociali, artistiche...) che vivono e pulsano ma sono continuamente sottoposte agli attacchi di una società che tende ad uniformare, che ama e protegge tutte le categorie fittizie che queste realtà sradicano.La segnalazione la possiamo cavare direttamente dalle parole di Vittorini: "sì, amico mio, il mondo è offeso, ma non ancora qua dentro".



Giacomo Bisanti



Libreria del Mondo OffesoMilano,
C.so Garibaldi 50 (cortile interno)
02 36520797
libreriadelmondooffeso@fastwbnet.it

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Pittura cinetica e stop-motion

Di artisti che mostrano le loro opere in internet ne conosciamo molti. Vuoi come scelta, vuoi come necessità, internet è la prima e più veloce occasione per mostrarsi al pubblico. Passato il primo gradino c'è chi abbandona il web per ricercare canali più classici e chi invece ne sfrutta le potenzialità. Tra questi ultimi figura Blu, artista made in Bologna, e il suo sito blublu.org. L'immediatezza della rete ci permette di seguire lo sviluppo e ogni nuova opera aggiunta giorno per giorno dall'artista, quasi come un'agenda. E proprio come un'agenda è costruito il sito di Blu. Un piccolo book che possiamo "sfogliare" per scoprire l'opera omnia di un'artista che "imbratta" pareti di stanze e muri che guardano la strada con immagini graffianti che ci proiettano in profonde e serie riflessioni sull'esasperato cammino intrapreso dall'essere umano. Le sue immagini sono partite dall'Italia, con una consistente presenza a Milano, e hanno fatto il giro dell'Europa per arrivare recentemente sulle pareti della monumentale Tate Modern di Londra. Molto particolari sono i suoi video, dove le figure dipinte sui muri di tutto il mondo prendono vita grazie allo stop-motion. Lo stop-motion è una particolare tecnica di ripresa che consiste nell'impressionare un fotogramma alla volta, potendo così modificare a proprio piacimento il materiale che si vuole impressionare e riuscendo quindi ad animare qualunque cosa. Perché il movimento appaia scorrevole sono necessari circa 24 fotogrammi al secondo, e questo dà l'idea di quanto sia eccezionale l'ultimo video messo in rete da Blu. Per realizzarlo ci vuole più lavoro e tempo di quando si possa immaginare, ma c'è del metodo nella sua follia: Blu compone il suo graffito alla parete, lo filma per il tempo necessario, poi modifica la figura quel tanto che basta per dare l'illusione del movimento, la filma ancora, quindi torna a dipingere; e così via per sette minuti.
In Muto, girato a Buenos Aires, animazione e pittura muraria si mescolano; tutto comincia da un muro di mattoni da cui esce una serie di mani e da lì ci trasporta in un universo che non ha limite se non quello dell'immaginazione dello stesso autore. Molto forte si sente il pessimismo che l'artista pone sull'essere umano, infatti niente di buono può "venir fuori" da un uomo, né quando da un uomo ne nasce un altro, né quando per un uomo che si rompe un altro si ricompone. Quello che riesce a fare meglio è trasformarsi in piccoli animali che non esiteranno a mangiarsi il vero uomo per lasciarne solo lo scheletro. In questo cortometraggio Blu crea letteralmente "pittura cinetica", come se Walt Disney avesse concepito tutta Cenerentola in un unico foglio, infinitamente ricancellato.
Michele Comba



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Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli



Molti sono gli spettacoli e le canzoni dedicati a Giuseppe Pinelli, ma a 39 anni dalla strage di piazza Fontana, a resistere alla prova dei decenni è rimasto solo Morte accidentale di un anarchico, di Dario Fo. Poco ricordato è ad esempio Documenti su Giuseppe Pinelli, lungometraggio del 1970 a doppia firma Elio Petri e Nelo Risi (fratello di Dino). All'interno di quest'opera impegnata e severa si trova una sequenza preziosa: gli undici minuti di Ipotesi su Giuseppe Pinelli, girati da Petri in uno stanzino disadorno, riproduzione dell'ufficio del commissario Calabresi nella questura di Milano.Accigliato, sotto grandi baffi, Gian Maria Volontè annuncia di volere ricostruire, e con lui altri quattro attori, la precisa dinamica della morte di Pinelli. L'ovvio intento dell'operazione è smascherare l'assurdità delle versioni ufficiali fornite dalla magistratura, che parlino di balzi felini o di un uomo che calza tre scarpe. Ciò che più si fa godere come originale è l'atmosfera da teatro-cinema, con la cinepresa fissa su un cavalletto e la recitazione inframmezzata da letture degli atti dell'inchiesta. Oppure la possibilità di osservare Volontè che per una volta smette i panni di Fregoli e si trova alle prese con la sua vera faccia, la sua vera voce e il suo vero accento: tre cose sorprendenti, quasi insospettabili.

Daniele Belleri


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Milano Centrale

intervista al regista Alan Maglio



a cura di Antonino Valvo

Come è stato il tuo incontro con la Stazione Centrale?
Ho cominciato a frequentare la zona grazie a degli amici che si incontravano lì. Ciò che mi attraeva di più era la volontà di trovarsi all'esterno per fare comunità: una sorta di polis, dove lo spazio pubblico diventa luogo deputato all'incontro, una socialità esibita senza che nessuno si preoccupasse di ciò che poteva pensare la gente.
Che obiettivo volevi raggiungere con il film?
Dei neri, dell'immigrazione, delle condizioni in cui vivono se ne è parlato molto ma sempre in maniera banale, con le storie più eclatanti e il degrado che le circonda. Io volevo concentrarmi sulle persone, su quello che pensavano e desideravano. Sapevo che non ero finanziato da nessuno e questo mi ha concesso più tempo: se volevo spenderci un anno, come poi ho fatto, nessuno me lo impediva. Il processo ha funzionato anche per questo motivo.
Come hanno reagito le persone coinvolte?
Alcune sono miei carissimi amici con cui ho condiviso ben più di un film. Gli altri le prime volte avevano timore, c'era chi non voleva farsi riprendere da una telecamera, e poi non ero africano, non ero uno di loro e questa cosa creava sospetto. Ma alla fine la curiosità ha vinto la diffidenza. Come ti sei mosso durante la lavorazione?
Abbiamo iniziato in maniera pretestuosa, con delle interviste. Si arriva a parlare dell'arte e delle donne, di politica solo quando hai tirato fuori i soliti discorsi: mi piace l'italia, sono nero, sono discriminato, ho la famiglia etc. Superato quello arrivi a un altro livello di dialogo, più profondo e originale. Alla fine c'era così tanta voglia di esprimersi che tenevo la telecamera accesa anche per 30/40 minuti.
Quando hai capito che il film era finito?
Terminate le riprese mi sono trovato con più di 20 ore di materiale. Ho avuto bisogno di tre mesi per catalogare e selezionare. Ho visto il tutto con Alessandro Tinelli che ha composto la musica e che mi ha aiutato al montaggio. Poter avere l'opinione di una persona che guardasse con occhi nuovi il girato è servito per far nascere concretamente il film.
Che via hai usato per la distribuzione?
Una volta finito il film come primo polo di divulgazione ho voluto il Festival del Cinema Africano di Milano, che ho frequentato come spettatore per dieci anni. Grazie alla visibilità che mi ha dato il festival di Milano sono stato chiamato da altre manifestazioni: Torino, Ancona, in Spagna, ad Amsterdam e addirittura Dubay.Hai mostrato il film in alcuni licei: come hanno reagito gli studenti?La reazione è stata ottima: il pubblico, composto da ragazzini cinesi, arabi, africani e italiani sentiva molto l'argomento. E non solo l'uditorio di origine africana ha risposto, ma anche ragazzi rumeni si coinvolgevano venendomi a raccontare le loro storie.

Il vicesindaco DeCorato ha pubblicizzato molto il piano di pulizia in atto in Stazione Centrale. Le persone che hai conosciuto come hanno vissuto questa trasformazione?
Male. Si avverte il momento pericoloso. La presenza dell'esercito per le strade pesa a molti di noi, immagina cosa può essere per una persona straniera, magari senza documenti che si vede schierate in mostra le forze dell'ordine: banalmente cambia aria, va altrove. Questo rende il mio film quasi archeologia, visto che quello che si vede non esiste più. È stato messo un certo freno alla criminalità ma sia gli aspetti positivi che quelli negativi continuano, solo non sotto i riflettori. Avvicinandosi l'Expo vogliono presentare la città come un vetrina perfetta ma è un'operazione inutile senza delle vere politiche di risoluzioni ai problemi. Per ora quello che è stato fatto è solo aver spazzato via i problemi come si fa con la polvere sotto il tappeto.


Potete vedere il film Milano Centrale su youtube.com/imminente08

Il Signor Perelà?!

Omaggio libero al futurismo


Dopo Cristo, Perelà. Arriva leggero e innocente l'uomo di fumo che riscriverà il Codice. Più precisamente arriva al Teatro Litta con lo spettacolo Il Signor Perelà?! in scena dal 24 novembre al 14 dicembre 2008 e tratto dalla novella di Aldo Palazzeschi Il Codice di Perelà. Di ispirazone futurista, il romanzo è ben più che un semplice modello del movimento artistico e culturale che esplose in Italia nel 1909 con il Manifesto di Marinetti. La vicenda dell’omino di fumo che con la sua venuta sconvolge l'impero delle convenzioni diventa, nella sua frivolezza, senza tempo. Lo spettacolo, per la regia di Mariano Furlani, è la prima produzione della stagione del Litta, nonostante la genesi del progetto risalga a due anni fa, durante la lavorazione di Visioni di Solaris, altra produzione del teatro di corso Magenta. A tre attrici venne lanciata dal regista Antonio Sixty una sfida: portare in scena un testo scelto e elaborato in completa libertà, con a disposizione mezzi e spazi del teatro. A rendere concreto il lavoro delle tre giovani l'incontro con Mariano Furlani a cui va il merito di aver catturato e reso palpabile l'atmosfera ironica e insieme feroce del romanzo. Grazie al prezioso supporto di Raffaele Rezzonico, l'adattamento è insieme sintesi e superamento del testo originale: il coro di personaggi che accoglie Perelà è concentrato in tre voci dall'umanità tagliente. Bianca Delfino Bicco Delle Catene, una debole figura che trascina come un fantasma il suo amore per la non vita (e per la morfina); Donna Giacomina Bàrbero di Ca' Mucchio, femmina devota alle convenzioni, sui cui rituali della quotidianità basa ogni sua certezza. Infine la Duchessa Zoe Bolo Filzo apoteosi della femme fatale, feroce seduttrice e fredda dominatrice delle anime di tutti gli uomini. Vittime tutte e tre dell'illusione infranta chiamata uomo cercano di proteggersi, ognuna a suo modo, fino all'avvento di Perelà. A queste tre dame è dato il compito di ricevere l'Uomo di Fumo e subirne l'incanto. A tre giovani donne, in ordine Isabella Macchi, Stefania Umana e Sara Bellodi, quello di portarle sulla scena. La dimensione letteraria del testo si realizza nello spazio raccolto che è la sala LaCavallerizza del Teatro Litta, ricavata da una vecchia stalla. Su una scena essenziale ma multiforme, data da tre cassettoni mobili dipinti con il tricolore nazionale, vivranno le immagini della poesia di Palazzeschi. I costumi, realizzati da Marcella De Faveri, sono rappresentazione dei caratteri portati all'eccesso, esplosione di personalità immaginarie che danzano su sonorità futuriste. La struttura di convenzioni e buone maniere presa di mira con ironia grottesca e spietata, prende forma in una messa in scena che sfiora e combina il cabaret surrealista, le esperienze futuriste, il melodramma borghese.


Perelà? Risolverà? Si chiedono le tre Dame. Perelà prende forma nelle loro parole, nei loro racconti, impalpabile come un ricordo e, come la speranza, aureo. Un uomo perfetto, un amante ideale, il nuovo salvatore, il Dio che realizzerà ogni desiderio, crocifisso per risorgere. Egli è tutto questo ma plasmabile come una diceria, nei mormorii delle tre dame diviene anche il bugiardo, lo sciagurato che si approfitta della debolezza femminea: in fondo è sempre un uomo, mormora Zoe. Come il nuovo Gesù di The Second Advent di Mark Twain, il nebbioso messia di Palazzeschi una volta rivelato non verrà accettato dal suo popolo. E scacciato volerà via, nel cielo, risorgerà fra le nuvole. Come Cristo. Dopo Cristo. Perelà.

Antonino Valvo

Dal 25 novembre al 14 dicembre 2008
LITTA_produzioni
DEBUTTO NAZIONALE

SIGNOR PERELÁ?!

Da Il Codice di Perelà di Aldo Palazzeschi
Regia Mariano Furlani
Consulenza al testo Raffaele Rezzonico
Con Sara Bellodi, Isabella Macchi, Stefania Umana
Disegno Luci Fulvio Melli
Costumi Marcella de Faveri

Sala La Cavallerizza
Corso Magenta, 24 Milano
repliche dal martedì al sabato alle 21.00 – domenica 17.00 – lunedì riposo
biglietti € 12/ €9