Isola della Moda

Nel quartiere Isola il fashion incontra il consumo critico



Che cos'è una città della moda? È una città in cui si produce moda e si lavora nella moda. Ma soprattutto è un posto in cui in cui si sente la moda come una cosa vicina e familiare, un patrimonio comune. In questa ideale città, a forza di stare in mezzo alla moda, gli abitanti si sentono incoraggiati a partecipare in modo autonomo alla creazione di bellezza; a ridefinire con il proprio lavoro quello che è moda. A Milano, questo accade? Come Murano e Faenza sono città del vetro e delle ceramiche, Milano si può considerare una città di artigiani della moda? Il pessimista radicale risponde no, e a tutto crede meno che a una moda quale patrimonio collettivo. Il suo pensiero è che la moda può esistere e mantenersi solo in quanto veicolo di esclusione, che lascia dietro di sé una lunga scia di invidie, di imitazioni, di conformismo.
La moda a Milano è però un fenomeno troppo ampio per essere tutto compreso in una lettura disfattista. Esistono realtà piccole, semi sconosciute, che parlano di consumo critico e di No Logo, di glocal di autoproduzione, di sviluppo sostenibile e di identità di quartiere, e provano a tradurre questo nugolo di intenzioni etiche in una pratica di commercio. Il flyer dell'Isola della Moda, in via Carmagnola, recita un invito sonante: «Una vetrina glamour per t-shirt di cotone biologico e giovani stilisti attenti all'ambiente e ai problemi sociali».
L'Isola della Moda è uno spazio di tre stanze nel pieno del quartiere Isola. Cento metri quadri riempiti di abbigliamento e accessori, oggettistica vintage, arredi originali. Tutto autoprodotto. Lo gestisce dal 2004 un gruppo di ragazzi: all'inizio solo t-shirt, le più facili da vendere, da 10 a 20 euro. Poi, piano piano, si passa a tutto il resto, sino agli abiti femminili e ai cappotti invernali. Oggi funge anche da showroom. Tutto quello che si vede si può comprare: quadri e fotografie, oggetti di design in vetro, una torre Eiffel alta come una persona, un pouf per (non) sedersi, acuminato come un porcospino. Una maglietta con il disegno di un cartone di latte in tetrapak, e in basso la scritta: My enemy, ci dice di una coscienza ecologica. In effetti buona parte degli abiti sono realizzati con tessuti e stampe naturali, mentre gli accessori discendono da materiali industriali riciclati, assemblati in nuove forme: nastri di videocassette sbobinati, o tutto il ferro della torre Eiffel, per esempio.



In via Carmagnola si parla di tematiche sociali con gli stessi termini con cui si discette di qualità fashion. All'inizio ci vuole un piccolo sforzo d'orecchio per tenere insieme i due discorsi. Autoproduzione, così, significa evitare lo sfruttamento di manodopera sottopagata, ma significa anche poter esibire un marchio made in Italy. E le t-shirt, per essere messe in vetrina, tanto meglio se hanno un concept che coinvolge materie etiche. L'impegno ambientalista e la povertà dei mezzi non pregiudicano comunque il successo delle collezioni de «l'unico atelier critico di Milano»:un paio di anni fa, la guida Lonely Planet per la settimana della moda meneghina affiancava i popolari stilisti dell'Isola a firme come Gucci e Prada.
Si arriva quindi a toccare il tasto bollente delle nuove costruzioni sull'area di Porta Nuova, distante da via Carmagnola un tiro di schioppo, e a discutere sui modi con cui preservare l'attuale assetto glocal e le rimanenze popolari del quartiere Isola: un profilo che si teme sarà compromesso dal termine dei lavori a Garibaldi. Una risposta che parte dallo showroom è l'indirizzo web inaugurato lo scorso 7 maggio: http://www.isolagaribaldi.net/, un portale in cui saranno inseriti il database di tutti i luoghi notevoli e il calendario degli eventi e degli incontri che costituiscono la vita mondana all'Isola. L'idea incoraggiante è quella di avviare un compatto coordinamento tra i vari spazi artistici, ristoranti e locali. Il timore che però ne si accompagna uscendo sulla strada è che questa iniziativa non andrà a coinvolgere chi più avrebbe bisogno di non restare solo: i veri ambienti popolari. Come le botteghe degli immigrati pugliesi e gli alimentari arabi, come i bar lividi dei cinesi, come le misere e per nulla artistiche tavole calde di Piazza Archinto.




Daniele Belleri

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