Intervista a Saverio Costanzo

Il problema non è fare un film: è farne due

dall'imminente del giugno 2007

a cura di Claudia de Falco






Sei laureato in sociologia della comunicazione, come sei arrivato al cinema?
In maniera casuale. Tutto è nato dalla tesi di laurea, che ho fatto a New York, per la quale avevo in mente un lavoro che comprendesse oltre alla parte cartacea anche una video. Guardando i documentari americani degli anni settanta, in particolare Wiseman, mi venne l’idea di lavorare su un bar italo-americano, e prenderlo come punto di osservazione per raccontare la comunità. Quella è diventata la mia tesi. Poi, continuando a fare questo tipo di lavori, ad un certo punto ho incontrato la storia del film palestinese: non potevo farne un documentario ed ho provato ha farne un film.

Private e In memoria di me, due film apparentemente molto distanti, non sono in realtà solo due punti di partenza diversi per parlare di libertà e di ricerca interiore?
Per me i due film sono molto legati, come erano legati anche ai precedenti documentari. La riflessione è sempre la stessa, quella appunto del percorso interiore che in In memoria di me è più esplicita, già nel soggetto del film. Inoltre il luogo chiuso, il perimetrare l’azione in un unico ambiente, già trasmette un messaggio alla base del film che è quello della fuga da quel luogo o della comprensione di quel luogo. E’ chiaro che in un certo senso parlano anche di libertà: in Private ce ne si priva non volontariamente mentre nel secondo film la privazione è autoindotta. L’idea dell’unico posto è quello che fa immediatamente venire fuori questa cosa.

Private è uscito in contemporanea con la nomina di Abu Mazen, in In memoria di me si parla di spiritualità, dei singoli modi di viverla ed interpretarla in un momento in cui la religiosità è in crisi. Quanto conta per te il legame con l’attualità? Credi che possa esistere un cinema che si distacchi totalmente dalla realtà in cui viviamo?
Per me qualsiasi cosa venga messa in scena è politica: ogni volta che qualcuno accende una telecamera su un soggetto del contemporaneo questo è politico.Tutto quello che si fa e si produce deve essere politico, il cinema è politica perché la vita è politica. Ogni film, anche il più disimpegnato, è un indice politico e questo fa sì che in qualche modo ci sia sempre la sensazione di attualità. L’idea di slegare i film dal tempo e dal mondo in cui vivo li renderebbe inutili. Il mio prossimo film quindi potrebbe anche essere di fantascienza, una commedia o un musical, ma comunque avrebbe dietro un’idea di attualità. La mia teoria è quella di partire da qualcosa di contemporaneo, per poi smembrarlo della sua contemporaneità è farne uscire un cuore che è assoluto. La storia di Private è la storia di qualsiasi guerra, di qualsiasi occupazione e quest’ultimo film non è altro che la domanda che l’essere umano si pone da quando esiste: chi sono io?che faccio qui? perché lo sto facendo? Tutte cose che prescindono dal tempo, in un contesto che può assomigliare a qualcosa che viviamo in realtà.



Ad un giovane che vuole iniziare che consigli daresti?
Di fare. Io ho cominciato molto presto, perché stando lì ero costretto a lavorare. Per me fare significa girare, montare, scrivere. Ho certezza del fatto che chi ha talento prima o poi viene fuori. Guarda l’Italia: è un paese in cui le opere prime prodotte sono circa il doppio di quelle che poi circolano. Significa che si è sempre alla ricerca di nuovi registi, di nuovi autori. Il problema non è fare il primo film, è fare il secondo: per il primo c’è desiderio di capire chi è capace di farlo ma poi… Se hai veramente qualcosa da dire andrai avanti.

Sei d’accordo con chi sostiene che il cinema verrà cannibalizzato dalla tv?
Per me no, non dalla televisione. La televisione non interessa più nessuno o interessa chi è lobotomizzato, chi vive di riflessi condizionati dalla televisione. Il problema è fino a quando il cinema resterà tale senza essere schiacciato dal sistema commerciale. Il cinema continuerà esserci ma sarà sempre più visto in forme non consone: internet, il dvd. Se muore la sala muore il cinema. La questione è riuscire a far sopravvivere il cinema non commerciale, non lasciare che tutto si appiattisca in esso. La gente continua ad andare a vedere film, il problema è che c’è ne è di un solo tipo. Il cinema rischia di essere schiacciato non dalla tv ma dal cinema stesso, dal suo mercato.

Quale strada dovrebbe intraprendere per sopravvivere ?
L’unica strada percorribile per chi fa cinema più o meno commerciale credo sia quella di crearsi un proprio pubblico di nicchia. Non è un pubblico di massa ma ti permette di girare il mondo, di far circolare le tue idee, i tuoi principi. Sono gli aspetti positivi della globalizzazione: io ho fatto un film e so che, attraverso i festival, le vendite internazionali, questo verrà visto in 30,40 paesi. E questo consente di andare oltre i confini, di parlare a molte più persone, che è ciò che il cinema dovrebbe fare sempre.

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